Perché il Governo del Cambiamento si è dimenticato dell’Innovazione?

scritto da il 30 Agosto 2018

Questo post è stato scritto assieme ad Alberto Forchielli, MBA with Honors alla Harvard Business School, fondatore di Mandarin Capital Partners ed esperto di business internazionale e nuove tecnologie –

In Italia quello attuale è stato definito il ‘Governo del Cambiamento’. Se così è, spicca un’illustre assenza: un Ministro per l’Innovazione. Con le recenti attribuzioni ai sottosegretari del Ministero per lo Sviluppo Economico, ora sappiamo che non è stata neppure definita una delega sul tema. Ciò è sorprendente se si considera che al governo vi è il Movimento 5 Stelle, il quale ha sempre posto particolare enfasi su tematiche quali cambiamento, futuro, nuove tecnologie, web e digitalizzazione. Un po’ come per un turista tedesco che arriva a Bologna, si infila in un’osteria tipica e non trova i tortellini: amaro risveglio fra stupore e delusione.

Qualcuno potrebbe lecitamente obiettare che a contare davvero sia la presenza di efficaci politiche per l’innovazione, le quali da tempo vengono definite ed attuate anche senza dover per forza creare una nuova poltrona ad hoc, come si usa dire. Qui di seguito proveremo ad argomentare che in realtà non è esattamente così, che avremmo apprezzato una squadra governativa con una accountability ben precisa sull’innovazione. Proponiamo un focus su tale considerazione, rimandando una disamina sulla bontà o meno delle politiche italiane per l’innovazione a futuri articoli / post, tenuto conto di una breve panoramica su come si comportano gli altri paesi in tal senso.

Ripartiamo dalla considerazione fattuale citata in apertura: nel governo italiano non c’è un Ministero per l’Innovazione, e neppure una delega. Vi è chi afferma si tratti di una funzione intrinsecamente svolta – o che dovrebbe essere svolta – dal Ministero per lo Sviluppo Economico (MISE): in quanto tale, non servirebbe esplicitarla o sdoppiare tale incarico mediante un ulteriore organo. Altri non ne sentono il bisogno citando un altro dicastero che dovrebbe occuparsene, ossia il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (MIUR).

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Entrambe le prospettive sono miopi se non pericolose. Si prenda anzitutto il MISE: come sopra già richiamato, da poco sono state definite le sue quattro deleghe: Energia e crisi industriali (Davide Crippa, M5S); Concorrenza, semplificazioni, responsabilità sociale delle imprese, consumatori e lotta alla contraffazione (Dario Galli, Lega); Commercio internazionale e investimenti esteri (Michele Geraci, Lega); Industria e incentivi, infrastrutture energetiche e smart cities (Andrea Cioffi, M5S). Per trovare qualcosa di espressamente focalizzato sull’innovazione occorre scendere a livello di uffici tecnici (che sono altra cosa: attuano linee politiche definite da altri), con le due Divisioni VI e VIII rispettivamente su “Politiche per le PMI, il movimento cooperativo e le Start up innovative” e “Industrie di base, della mobilità e della manifattura avanzata, materie prime e materiali innovativi”.

Una prima considerazione: se non serve definire un presidio specifico sull’innovazione in quanto quest’ultima è, o dovrebbe essere, intrinsecamente legata allo sviluppo economico, non vale forse lo stesso per l’internazionalizzazione? Queste sono unanimemente considerate le due principali leve di crescita: mediante l’ingresso in nuovi mercati esteri tramite l’internazionalizzazione, mediante la creazione di mercati del tutto nuovi con l’innovazione. Perché allora definire una delega per l’internazionalizzazione e non per l’innovazione? Inoltre, chi ritiene superflua una delega su innovazione dovrebbe spiegare il senso di creare nel MISE ben due deleghe differenti su Energia (ma questa è un’altra storia…). Per quanto poi concerne il MIUR, le responsabilità specifiche dei due sottosegretari Fioramonti e Giuliano non sono ancora state stabilite, ma pare si vada verso due deleghe su Università e Scuola: oltre all’innovazione, quindi nessuna delega neppure per la ricerca.

È bene ricordare che i risultati di un’azienda sono funzione anche della configurazione organizzativa e di governance che essa decide di darsi. L’articolazione in ruoli e competenze crea cultura aziendale, chiarisce internamente e verso l’esterno le priorità definite del top management, ottimizza taluni processi rispetto ad altri. Questo vale tanto per le imprese private quanto per la pubblica amministrazione. Definire o meno la presenza di certi ministeri e non altri non è questione di forma, è sostanza. Appena dopo l’incarico ad un nuovo Primo Ministro tutti attendono con impazienza le nomine della squadra governativa, proprio in quanto trattasi del primo fondamentale tassello per concretizzare il programma presentato agli elettori. Grazie a tale atto ogni governo si dà una propria identità. L’esecutivo in carica nel nostro paese non fa eccezione: avevate mai visto prima un ‘Ministro per i Rapporti con il Parlamento e per la Democrazia Diretta”? È indispensabile attivare un Ministero interamente dedicato ad “Affari regionali e Autonomie”? E così via. Questo è il modo con cui M5S e Lega – giustamente e lecitamente – impostano il loro governo rispetto a priorità e immagine che vogliono dare al paese. Bene, ma allora perché il ‘Governo del Cambiamento’ non ha un Ministero e neppure una delega all’Innovazione? Riteniamo lecito porsi questa domanda.

In realtà, la questione è più complessa: una delega su innovazione nel MISE servirebbe a poco. L’Italia ha bisogno di una cura ben più aggressiva e dirompente. Per comprendere la natura del problema, si parta dal seguente esempio. Immaginate di recarvi in officina per sostituire la lampadina fuori uso di un faro della vostra auto. Immaginate altresì di sentirvi rispondere che sarebbero perfettamente in grado di effettuare questa sostituzione, ma purtroppo non hanno lampadine nuove: non ne hanno mai avute e non intendono cambiare questa politica. Sbigottiti e increduli, vi recate in una seconda officina ma il disappunto non cambia: ora questi hanno centinaia di lampadine nuove, ma non le sanno montare. Assurdo e irritante, vero? Entrambe le officine sono ottime nella loro specializzazione, ma nessuna delle due offre una soluzione al problema dell’utente, solo una risposta parziale che nei fatti è inutile. Certo, si può comprare una lampadina nella seconda officina e portarla nella prima per la sostituzione, ma trattasi di una modalità ben poco efficiente e di un servizio pessimo. Tant’è che in effetti nel mondo reale tutte le officine vendono e cambiano lampadine, allo stesso tempo.

Con questo esempio si vuol rimarcare come ciò che per il mercato – e per ogni persona di buon senso – è assolutamente logico ed elementare diventa dannatamente complicato in politica: occorre prendere atto che l’innovazione non è una singola specializzazione, quanto piuttosto un processo che si sviluppa lungo svariate fasi e competenze diverse fra loro, dall’ideazione creativa fino all’applicazione che crea valore. Se una sola di queste fasi è debole o non integrata alle altre, l’innovazione non si realizza. Il problema è che MIUR e MISE non si occupano di innovazione, al più di singole sotto-fasi: uno fornisce le lampadine, l’altro le utilizza per creare valore. Per generare innovazione occorre integrare le due fasi (con anche altre presidiate da altri ministeri, a dirla tutta).

In altre parole, la ricerca presidiata dal MIUR genera ‘invenzioni’, non ‘innovazioni’. Affinché un’invenzione diventi vera e propria innovazione, serve che scienza e creatività si traducano in concrete applicazioni industriali, risolvendo in modo efficiente problemi di mercato e/o creando nuovi bisogni. A ciò devono pensare le imprese, che sono fuori dal perimetro del MIUR. A sua volta, il MISE prova a stimolare la ricerca nel tessuto imprenditoriale, ma non ha l’esplicita responsabilità dello sviluppo scientifico e tecnologico del paese. Il risultato è che ognuno fa bene il proprio dovere, ma il faro dell’auto resta spento. Per brevità si citano solo questi due dicasteri, ma potremmo coinvolgerne di altri.

I dati confermano che in Italia il gap fra ‘invenzione’ e ‘innovazione’ è poco teorico e molto tangibile. Se si parla di ricerca scientifica, l’Italia si difende bene su scala internazionale: secondo l’autorevole fonte ‘Scimago Journal & Country Rank 2018’, il nostro paese si colloca ad un più che onorevole ottavo posto al mondo per produttività scientifica, con un trend in crescita e a ridosso di chi ci sta appena davanti ossia Francia e Giappone (per chi è curioso, sul podio vi sono USA, Cina e Regno Unito). Siamo addirittura quarti – dopo Francia, Germania e Stati Uniti – secondo lo studio di Elsevier (report 2017).

La classifica Scimago 2018

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Il problema è che poi siamo al 31° posto al mondo se si parla di innovazione (fonte: Global Innovation Index / Bloomber & World Bank 2017). Addirittura 26° su 29 in Europa in quanto a livelli di digitalizzazione, con dietro solo Bulgaria, Grecia e Romania. In altre parole, abbiamo la lampadina, ma non sappiamo usarla o peggio non sappiamo neppure a cosa serve. Questo perché fatichiamo a concepire l’innovazione come un processo complesso che va dall’ideazione all’industrializzazione. L’innovazione non è una ‘brillante idea’: è una risposta originale ed efficace ad un problema reale e sentito.

Una volta creato un ministero/delega all’innovazione, diventa cruciale assegnare adeguati poteri e risorse, diversamente sarebbe davvero solo un’inutile poltrona in più. Questo sì, è un gran bel problema. Soldi non ce ne sono, mentre il rischio di smuovere delicati equilibri di potere è un grattacapo altrettanto rilevante. Sul fronte risorse, va detto che ogni anno lo Stato già assegna una quota a iniziative di stimolo all’innovazione: come detto in precedenza, si discute l’assenza di un organo governativo specifico su questi temi, non l’assenza di politiche all’innovazione, le quali godono di un proprio portafoglio, adeguato o meno che sia. Ad esempio, le agevolazioni concesse dal MISE per Ricerca, Sviluppo e Innovazione nel 2017 sono state pari a circa 586 milioni di euro. Non è abbastanza ma si può partire da qui.

Piuttosto, preoccupa il fatto che nel triennio 2014-2016 questa dotazione si sia contratta del 10% rispetto al triennio 2011-2013 e addirittura del 65% rispetto al periodo 2008-2010.[1] Da notare che la riduzione di risorse per bandi è stata controbilanciata da un incremento delle agevolazioni automatiche di natura fiscale, non computate nei dati precedenti in quanto non in capo al MISE: qui si tocca con mano la frammentazione di processo e competenze in tema innovazione su diversi ministeri, ad ulteriore conferma di quanto detto in precedenza. Va comunque riconosciuto che con il Piano Industry 4.0 dell’ex ministro Calenda è stato fatto uno stanziamento di risorse particolarmente ingente nel panorama italiano.

Altrettanto delicata – se non di più – è la questione di attribuzione di poteri all’eventuale nuovo ministero: se non puntuali e sostanziali, sarà tutto inutile. Difficile però convincere altri a mollare redini rilevanti, tanto più a governo avviato. Consapevoli si tratti di una questione molto complessa che non abbiamo la pretesa di risolvere qui in modo sbrigativo, si avanza l’idea che potrebbe trattarsi di una figura prevalentemente di coordinamento/raccordo fra ministri e sotto-segretari a vario titolo coinvolti in tema di innovazione, specie nel caso di una ‘semplice’ delega. Infatti, come detto in precedenza, è un problema specie di frammentazione e mancanza di visione d’insieme, non tanto di vuoto di competenze in senso stretto. Un ruolo di questo tipo renderebbe fondamentale l’individuazione di una figura – politica o tecnica che sia – estremamente autorevole, capace di farsi ascoltare anche e soprattutto per carisma e competenze, più che in virtù del ruolo formale che gli è stato assegnato. Altro ben problema, lo riconosciamo. Forse è per queste criticità che tale figura non è stata pensata nell’organigramma di governo. Fatto sta, che se concordiamo sulla sua importanza, il problema va affrontato.

E fuori dall’Italia cosa avviene? Ci siamo presi la briga di redigere una mappa aggiornata per verificare in quali fra i paesi fra più avanzati fosse presente un presidio mirato su innovazione nella compagine governativa. Un vero e proprio Ministro per l’innovazione in realtà non è ancora particolarmente diffuso: in tabella 1 si riportano le principali nazioni dove è oggi è presente, assieme all’esatta dicitura utilizzata.

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Come si può notare, è una funzione spesso concepita congiuntamente allo sviluppo tecnologico o scientifico, al fine di completare il loop ricerca-industrializzazione sopra richiamato. Emblematico è il caso del Canada, dove è in carica il “Minister of Innovation, Science and Economic Development” (scienza + sviluppo economico = innovazione). Intrigante è la scelta del continente oceanico: in un’epoca dove il progresso è tacciato pesare sui livelli di occupazione, qui si scommette sulla stretta sinergia fra innovazione e politiche per il lavoro (“Minister for Jobs and Innovation” in Australia, “Ministry of Business, Innovation and Employment” in Nuova Zelanda).

Vi sono poi nazioni dove è presente un ‘Minister of Science and Technology’ (o diciture simili), come in USA, Cina, India, Israele e Corea del Sud. Si noti bene, trattasi di qualcosa di ben diverso dal ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, che in questi paesi è un ulteriore ministero ben distinto dal precedente. L’obiettivo è proprio quello sopra accennato: creare un ponte fra scienza e industria, per facilitare uno squadro al futuro senza perdere di vista concretezza e fattibilità.

Interessante inoltre notare che alcune nazioni hanno puntato su un ministero ad hoc per la digitalizzazione – altro assente illustre nel governo che vede il M5S protagonista assieme alla Lega – come nel caso di India, Russia, o Belgio.

Se tuttavia consideriamo più in generale la presenza di un ministero oppure di una delega in tema di innovazione, scopriamo che ciò è un caposaldo del modello anglosassone: l’uno o l’altro sono presenti nei governi di USA, Canada, Regno Unito, Nuova Zelanda e Australia. Non stupisce che, prima dell’ascesa asiatica, sia stata proprio la cultura anglosassone quella ad aver stabilito un primato tecnologico.

Un ministero e/o una delega su innovazione è presente in 6 su 10 delle principali potenze economiche mondiali. Curiosamente, tre su quattro dei governi dove è assente sono esattamente corrispondenti alle tre nazioni dell’Europa continentale in questo gruppo (Italia, Francia, e Germania): presumibilmente un qualche legame con il fatto che il vecchio continente è considerato dai mercati internazionali quello meno orientato al futuro vi deve essere.

Un dato ancor più interessate riguarda il fatto che un presidio governativo di questo tipo è espressamente rintracciabile in ben 12 dei 15 stati considerati più innovativi al mondo secondo il report Bloomberg-World Bank: risulta difficile credere sia solo un caso.

In chiusura di questa panoramica, ricordiamo che anche l’Italia ha avuto in passato un ministero per l’ “Innovazione e le Tecnologie”, presieduto dal Lucio Stanca, dal 2001 al 2006 durante il terzo governo Berlusconi. Va inoltre citato il Ministero per le Riforme e l’Innovazione nella Pubblica Amministrazione, nel secondo governo Prodi.

Queste considerazioni nel loro insieme ci portano ad una conclusione: se l’Italia vuole tornare ad essere considera come un tempo un ‘game changer’ necessita – consapevoli che ciò non sia sufficiente – di una responsabilità governativa unica, chiara e mirata in tema di innovazione, cui vengano assegnate risorse adeguate e poteri sostanziali. Tale unità di governo dovrebbe farsi carico di tutte le sue fasi in una logica integrata, dallo spirito ‘avventuroso’ dello sviluppo creativo-scientifico fino alla concretezza dell’applicazione industriale. Bisogna così pure accettare che l’innovazione concepita a trecentosessanta gradi è – e deve essere – collocata fuori dal perimetro tanto del MISE quanto del MIUR: merita un organo a sé. Diversamente, avremo – da un lato – Università e centri di ricerca che inventano fili ad incandescenza in tungsteno ma non hanno idea di cosa diavolo farsene, e – dall’altro  – imprese che hanno bisogno di luce ed energia per realizzare progetti ambiziosi, ma usano lampade ad olio perché credono che in giro non vi sia nulla di meglio.

Twitter @sdenicolai @forchielli

[1] Fonte di questi dati e ulteriori informazioni:

  1. a) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-11-17/istat-spesa-ricerca-e-sviluppo-sale-2015-ha-toccato-222-miliardi-102830.shtml?uuid=AE38YdDD
  2. b) https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/spesa-in-ricerca-e-sviluppo-perche-litalia-e-in-ritardo-nonostante-il-sostegno-pubblico/