categoria: Draghi e gnomi
Doom loop, la zavorra dei titoli di Stato che affonda le banche. Come se ne esce?
Oltre tremila punti, circa il 24%, è quanto ha perso l’indice di Borsa delle banche italiane dal 15 maggio scorso, da quando il rendimento dei titoli di Stato italiani ha iniziato la recente corsa verso l’alto. Il legame inverso tra il rendimento dei buoni del Tesoro ed il valore di Borsa delle banche italiane è qualcosa che è possibile rilevare ormai da diversi anni e che si sostanzia in ciò che è comunemente chiamato “doom-loop” (circolo vizioso) tra banche e titoli di debito pubblico. Un circolo vizioso nel quale all’aumentare del rendimento dei titoli di Stato diminuisce il valore di mercato delle banche che più ne hanno in portafoglio.
Un circolo vizioso che costituisce uno degli elementi alla base delle resistenze dei Paesi del nord di giungere ad una vera e concreta unione bancaria, con un’assicurazione europea sui depositi; perché prima che gli Stati riescano a condividere i rischi, occorre che le banche li riducano. Allo stesso modo però, molti Paesi periferici ritengono che la riduzione dei rischi possa avvenire solo attraverso dei meccanismi di condivisione che li tengano al riparo dagli eventi traumatici. Come nel problema dell’uovo e della gallina è difficile giungere ad una soluzione condivisa che stabilisca cosa deve nascere prima, se la condivisione dei rischi o la loro riduzione.
Lasciando alla politica europea il modo di risolvere il dilemma, vediamo però come questo circolo si è venuto a formare e come sia direttamente legato ad un importante pezzo mancante dell’Unione monetaria europea: un safe asset sovranazionale.
La normativa europea sui requisiti di capitale ha assegnato la possibilità alle banche di non accantonare capitale a fronte delle esposizioni che esse detengono verso i titoli di Stato del proprio Paese o degli altri Paesi membri. Considerare che i titoli di Stato di ogni singolo Paese potesse aver lo stesso rischio, e quindi lo stesso rendimento, era la finzione con cui l’Unione monetaria europea è cresciuta fino all’arrivo della grande recessione. Il fatto che non esistesse un safe asset sovranazionale sul quale investire, un titolo sicuro rappresentativo dell’Eurozona nel suo insieme, veniva percepito come un’assicurazione indiretta sui titoli di debito dei vari Stati.
Questa appunto è stata la finzione con cui si è andati avanti fino all’arrivo della grande recessione. La crisi del 2007/2008 ha arrestato i flussi di capitali dal nord europea, facendo emergere le fragilità dei settori bancari di alcuni Paesi periferici, facendo emergere la necessità di un loro salvataggio, ovviamente a carico dello Stato. Irlanda, Portogallo e soprattutto Grecia, i primi Paesi ad esserne colpiti. Si è così cominciato a dubitare della capacità fiscale di questi Paesi, anche perché l’entità del salvataggio era talmente ampia che fu necessario quello che venne chiamato l’aiuto degli altri Paesi membri.
Pressati da un’opinione pubblica alimentata a suon di fannulloni del Sud Europa e Stati spendaccioni, con l’intenzione di limitare l’impegno finanziario che in futuro gli altri Stati avrebbero dovuto offrire a quelli in “difficoltà”, in un memorabile vertice avvenuto nell’ottobre del 2010, l’allora presidente francese Sarkozy e la cancelliera tedesca Merkel dichiararono dinanzi alla stampa internazionale che i privati che hanno investito in titoli di Stato dei Paesi membri potevano in futuro esser chiamati a partecipare ai costi del salvataggio.
La finzione era finita, i titoli di Stato dei vari Paesi della zona euro non erano più rischiosi allo stesso modo.
Si riporta che l’allora presidente della Banca centrale europea (BCE) Jean-ClaudeTrichet ammonì la delegazione francese esclamando: “Voi state distruggendo l’euro”. Non aveva certo sbagliato di tanto la previsione, visto che, circa un anno e mezzo dopo, solo la dichiarazione del suo successore Mario Draghi di apertura incondizionata a fare tutto il necessario per salvare la zona euro riuscì ad evitare il collasso.
Il risultato del vertice di Deauville fu il contagio verso gli altri Paesi periferici più grandi: Spagna ed Italia. Andando a vedere i dati dei flussi finanziari con l’estero, tra novembre e dicembre 2010 escono dall’Italia investimenti esteri in titoli di Stato per circa 32 miliardi di euro e depositi esteri presso le banche italiane per circa 150 miliardi.
Complice la delicata situazione politica del 2011, gli effetti sui rendimenti dei titoli di Stato non tardarono a manifestarsi. La parola spread entrò a far parte delle aperture quotidiane dei telegiornali. Per tamponare la situazione la BCE impiegò una buona parte delle risorse del Security Market Programme (SMP) sui titoli pubblici di Italia e Spagna, ma l’intervento si dimostrò del tutto inadeguato. Però, sempre nel 2011, la BCE intervenne alzando due volte i tassi d’interesse, con una manovra che ancora in pochi riescono a giustificare.
Da novembre di quell’anno, con l’arrivo del nuovo presidente Draghi, la BCE lanciò un nuovo programma di finanziamento a lungo termine (3 anni), che permetteva alle banche dell’eurozona di rifinanziarsi senza limiti predeterminati presso la banca centrale, presentando adeguati (o anche non così adeguati) collaterali. In questo modo le banche potevano ottenere liquidità dalla BCE, acquistare titoli di Stato, da presentare poi alla stessa BCE per riottenere nuovamente liquidità. Si parlò a suo tempo di banche che preferivano acquistare titoli di Stato piuttosto che prestare all’economia reale, ma era in sostanza un comportamento abbastanza logico se si pensa a quanto capitale (nessuno) il possesso di titoli di Stato assorbe e alla necessità della BCE di favorire i deflussi di liquidità dai Paesi periferici con minori traumi possibili.
Siamo così arrivati alla nascita del circolo vizioso. Il legame tra banche e titoli di Stato non nasce infatti per decisione divina, ma è il risultato di una serie di eventi che partono dalla volontà/necessità delle banche del nord Europa di non rifinanziare quelle della periferia e dalla decisione di metter fine alla finzione sulla stessa rischiosità dei Titoli di Stato.
La comprensione di questi eventi ci può aiutare ad ipotizzare quale possa essere la soluzione a questo circolo vizioso.
Una prima soluzione, quella immediata, è che si possa in qualche modo far dimenticare cosa è successo in questi anni. Far dimenticare il vertice di Deauville e l’idea che in futuro i possessori di titoli di Stato dei Paesi della zona euro possano incorrere in perdite. Questa soluzione, che magari sembra così impossibile, non è detto che non sia così concreta. I mercati, che così perfettamente prezzano il rischio, già adesso valutano con un minimo scarto il rendimento dei titoli di Stato irlandesi e francesi rispetto a quelli tedeschi, e con uno scarto assolutamente ridotto quelli di Spagna e Portogallo. Non è detto che eliminando credibilmente il rischio di un’uscita dell’Italia dall’euro questo scarto non si riduca considerevolmente anche per le nostre emissioni e che dall’estero ritornino a sottoscriverle in quantità importanti.
Un’altra soluzione, più complicata, ma che garantirebbe la stabilità del sistema, consiste nel fornire uno strumento sovranazionale sicuro, un safe asset, che sostituisca, in modo permanente e senza traumi nei rendimenti, i titoli di stato dei singoli Paesi. Una soluzione complicata proprio per il grado di condivisione del rischio che necessita (si pensi ad esempio agli Eurobond e le polemiche che la loro discussione ha sempre comportato) e per la gradualità con la quale dovrebbe avvenire.
Per il momento l’unico safe asset sovranazionale offerto in misura importante alle banche sono le riserve della banca centrale. Attraverso il programma di acquisti PSPP (il Quantitative easing) le banche nazionali hanno modo di cedere alle singole banche centrali nazionali i titoli pubblici in loro possesso e ridurre di conseguenza il doom loop. Una soluzione anch’essa temporanea, che dipende da quanto tempo la BCE deciderà di mantenere in circolazione l’ammontare di riserve create.
Le soluzioni verso le quali siamo indirizzati sono essenzialmente di tipo provvisorio. Soluzioni che risolvono solo temporaneamente il problema, ma che, se dovessero ripresentarsi le stesse condizioni del 2009, non eviterebbero il riattivarsi degli eventi. In un circolo vizioso che non è più solo tra banche e Stati, ma anche tra soluzioni temporanee e rischi di rottura della zona euro, nel quale i Paesi periferici, compresa ovviamente l’Italia, risulterebbero tra i più penalizzati.
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