categoria: Res Publica
Cinquant’anni senza un vero programma
Quest’anno compio 50 anni.
Sarebbe potuta andare meglio, mi dico.
Ma forse al paese è andata peggio.
Negli ultimi 50 anni l’Italia si è incartata su se stessa. Da membro del G7 a periferia d’Europa. Da paese industriale a destinazione turistica di massa. Da leader a follower.
L’opportunità storica dell’ingresso in Europa non è stata colta, decadi di crescita non hanno trasformato il tessuto sociale e politico. Per chi non fosse d’accordo, i dati sono nelle note a piè pagina[i].
Di chi è la responsabilità? Della classe dirigente. Destra-sinistra-centro, nessuno escluso.
Mancanza di visione e incapacità hanno prodotto ritardo economico e sociale e, cosa forse più grave, una profonda disaffezione da parte dei cittadini.
Dove è evidente la (mancanza di) visione? Nei programmi elettorali.
Son trent’anni – da quando ho il diritto di voto – che ad ogni elezione li cerco.
Non li ho mai trovati.
Per decidere chi votare devo sapere cosa propone ogni partito, articolato in forma semplice e chiara.
Vorrei vedere le proposte. Vagliarne coerenza e credibilità.
“Se capisco cosa volete fare, e mi convince, vi voto”.
Chiedo pazienza al lettore: la lista dei temi è la solita. Nonostante la noia, è essenziale occuparsene, pretendere risposte. Bisogna.
“Che società costruiremo nei prossimi decenni?”
In troppi temi cruciali l’Italia ha accumulato colpevole ritardo, e – dopo mezzo secolo – è ben più indietro degli altri paesi fondatori[ii] dell’Ue, e della media europea.
Ai partiti chiedo: “Quali sono le proposte?”
Ci sono situazioni gravi (in corsivo) che hanno bisogno di soluzioni concrete:
1. Crescita[iii]: come uscire dalla stagnazione?
Vanno affrontati: i) invecchiamento[iv] – negli ultimi cinquant’anni l’Italia è passata dall’essere uno tra i paesi più giovani d’Europa a uno in cui la popolazione diminuisce; ii) produttività e innovazione[v] – entrambe sono al di sotto della media europea; come evitare che le rivoluzioni tecnologiche in atto rendano ancora più obsoleto il sistema produttivo?; e iii) debito pubblico[vi] – come ridurlo?;
2. Lavoro[vii]: come aumentare partecipazione e retribuzioni? Come ridurre i NEET?
In Italia lavora il 57 per cento della popolazione contro il 69 della media europea. In termini di retribuzione al lavoratore, il costo del lavoro è più basso sia della media europea che di quello degli altri paesi fondatori. Come ridurre l’abuso del precariato e aumentare il reddito da lavoro dipendente senza ridurre la competitività delle imprese?
Come ridurre la disoccupazione giovanile? Su 100 giovani 32 sono disoccupati, e tra i 20-24enni un terzo non è “né impiegato, né studia, né sta facendo formazione professionale” (è un cosiddetto NEET);
3. Ambiente: come ridurre la concentrazione di polveri sottili[viii], la seconda più alta d’Europa?
4. Criminalità organizzata[ix]: ormai ha un fatturato che vale il 10-15 per cento del Pil. Tutto OK?
5. Welfare: istruzione (l’Italia è ultima in Europa per numero di laureati[x]), sanità, pensioni;
6. Trasporti: l’Italia è il paese dell’Eurozona (EZ) con il maggior numero di automobili[xi];
7. Corruzione[xii]: per Transparency, l’Italia è cinquantaquattresima su 180 paesi. Nulla da dire?
8. Immigrazione: qual è la distinzione tra richiedenti asilo e immigrati[xiii]? Come attrarre i migliori talenti, e trasformarli in una risorsa[xiv]?
9.Povertà[xv] e disuguaglianza: sono entrambe in aumento. Nessuna proposta?
10. Ruolo della donna: la partecipazione femminile al mercato del lavoro (40 per cento) è tra le più basse dei Paesi sviluppati [xvi].
11. Sistema fiscale[xvii]: che proposte ci sono su redistribuzione del reddito, investimenti, economia sommersa?
12. Sistema bancario: chi paga gli aumenti di capitale[xviii]?
13. Last but not least, futuro dell’Europa: che proposte per fiscalità, unione bancaria, assicurazione dei depositi, Eurobonds? Lasciamo decidere tutto ad altri?
Cosa dicono i programmi dei partiti sui temi di cui sopra? Poco o nulla. Anche quest’anno[xix], proposte concrete non ne ho trovate.
E come si fa a votare?
In realtà i programmi non ci sono perché ai partiti non servono. Hanno altri obiettivi.
Il sistema politico si concentra sulla conservazione dei privilegi, sul clientelismo (un fenomeno antico, a tutte le latitudini e in tutte le classi sociali[xx]) e sull’occupazione partitica delle istituzioni. Sulle rendite di posizione.
Il consenso elettorale e gli interessi particolari contano più del bene comune.
Strutture di potere costituito ostacolano la meritocrazia[xxi]. I migliori non vengono candidati.
Dove è evidente la (mancanza di) capacità? Nelle liste elettorali.
Da decenni, non metter le persone giuste al posto giusto ha portato a decisioni sbagliate. Errori di portata storica, con effetti di lungo periodo che stiamo ancora pagando[xxii].
E così, senza un minimo di criterio meritocratico nelle nomine, l’Italia non cambia.
Leggi e regolamenti tendono a favorire le élite, che in tal modo si appropriano di risorse altrimenti pubbliche. La mobilità sociale è limitata. Le politiche pubbliche vengono disegnate per mantenere lo status quo, non per ottenere giustizia sociale. I servizi pubblici sono inadeguati al carico fiscale[xxiii]. Il nepotismo spinge all’emigrazione individui formati a caro prezzo.
Inevitabilmente, corruzione e inefficienza comportano bassa competitività[xxiv], bassa crescita, e bassa occupazione.
A chi mi accusi di ripetere cose già trite, ricordo che mio nonno, agricoltore, ripeteva sempre, come un disco rotto, che non capiva perché dovesse diventare Ministro dell’Agricoltura un politico digiuno della materia. Mia nonna si spazientiva. Ma aveva ragione lui.
NOTE
[i] In un contesto assai favorevole il paese è cambiato poco. Negli anni cinquanta, gli anni del “miracolo economico”, il prodotto interno lordo (Pil) pro-capite aumentò in Italia del 5,3 per cento all’anno (in Germania del 6,5 e in Francia del 3,5), grazie a massicci investimenti, in: 1) “ricostruzione e sviluppo” da parte dei governi dei maggiori paesi europei, con il sostegno finanziario degli Stati Uniti attraverso il Piano Marshall; e 2) in ammodernamento dell’apparato produttivo da parte delle imprese, alla ricerca di maggiore efficienza e produttività. Il processo di integrazione europeo – iniziato con l’istituzione della Comunità Economica Europea (CEE) con il trattato di Roma del 25 marzo 1957 – avrebbe dovuto essere usato per trasformare il paese. L’espansione del commercio internazionale (tra il 1950 e il 1995, le esportazioni mondiali sono cresciute di 16 volte in volume), la modernizzazione degli impianti industriali e la convergenza delle economie europee crearono opportunità uniche. Eppure, in Italia con la crescita non è arrivato lo sviluppo. Nelle note successive si trovano i dati per settore.
[ii] Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi.
[iii] Negli ultimi 20 anni, l’invecchiamento della popolazione ha ridotto i consumi e aumentato i risparmi. Alti livelli di debito – pubblico e privato – hanno limitato gli investimenti e la crescita della produttività; di conseguenza, il Pil è cresciuto a una media annuale dello 0,46 per cento. Negli ultimi cinque anni, la media è scesa allo -0,60 per cento. Il Pil pro capite è fermo su valori di fine-1990. Nel 2017, grazie alla ripresa globale il Pil è aumentato dell’1,4 per cento (il dato più alto da sette anni, dal 1,7 del 2010) ma rimane inferiore del 5,7 per cento rispetto al picco pre-crisi (del primo trimestre del 2008). Investire rimane difficile e poco redditizio. Nel quinquennio 2018-22 la crescita è stimata tra lo 0,9 e l’1,0 per cento.
[iv] Alla fine degli anni ‘50 l’Italia era tra i paesi più giovani d’Europa, con metà della popolazione poco più che trentenne. Negli ultimi 2 anni la popolazione è diminuita (di solito succede durante una guerra).
[v] Dagli anni ’50 ad oggi la struttura produttiva si è lentamente ma inesorabilmente deteriorata e le imprese più dinamiche, dalla manifatturiera alla meccatronica, si sono orientate verso i mercati esteri. Tra il 1963 e il 1985, la spesa in ricerca e sviluppo è salita dallo 0,6 all’1,1 per cento del Pil (nell’EZ è passata dall’1,5 al 2,1 per cento). Negli ultimi 20 anni, innovazione e competitività si sono mantenute al di sotto della media europea. Dalla metà degli anni Novanta la produttività italiana è caduta molto più che in altri paesi: si fosse mantenuto un livello di produttività pari a quello del 1995, il Pil sarebbe più alto del 15 per cento. La sfida è chiara: le rivoluzioni tecnologiche ormai avviate rischiano di rendere ancora più obsoleto il sistema produttivo italiano.
[vi] Negli anni 70, il rapporto tra debito pubblico e Pil iniziò a crescere, e accelerò nel decennio successivo, determinando un progressivo divario rispetto agli altri Paesi fondatori. Il rapporto tra deficit e Pil è previsto al 2,3 per cento nel 2017 (2,4 nel 2016). Nel 2016, il debito pubblico è cresciuto a 2.260,3 miliardi di euro e il rapporto tra debito e Pil ha raggiunto il record storico di 132,6 per cento; tale valore è il secondo più alto della zona euro dopo la Grecia (176,9) e ben 11,2 per cento al di sopra dell’obiettivo previsto nel “Programma di Stabilità” del 2013. Il rapporto debito-Pil dell’Europa è a quota 90 per cento. I 20 miliardi stanziati nel dicembre 2016 per le ricapitalizzazioni precauzionali delle banche in crisi graveranno ulteriormente sulle finanze pubbliche e il rapporto tra debito e Pil crescerà ancora: nel 2017 toccherà il 132,8 per cento, per stabilizzarsi nel 2020 intorno a quota 131.
[vii] Nel 1963, il tasso di disoccupazione in Italia era al 4 per cento. Dalla metà degli anni 80 è in doppia cifra, oggi al 10,8 per cento è al di sopra dei livelli pre-crisi, e rimane al di sopra dei livelli pre-crisi e alla media dell’area euro (8,7 per cento). Nel 2016 il tasso di occupazione in Italia era pari al 57,2 percento della popolazione in età attiva, un livello inferiore a quello dell’Ue e più basso che negli altri paesi fondatori. In Italia, il tasso di occupazione dei 55-64enni è più basso di quello medio europeo. La disoccupazione giovanile è al 32.2 per cento. Fra i 20 e 24 anni, quasi uno su tre è un NEET (not in employment, education or training): non è interessato a trovarsi un’occupazione, non studia, e non si sta formando professionalmente.
[viii] L’Italia ha la più alta concentrazione di polveri sottili in Europa, la peggiore dopo la Polonia. Le città sono insicure e il governo è a rischio maxi-sanzione da parte della Ue.
[ix] L’economia illegale rappresenta circa l’11 per cento del Pil. Secondo Bankitalia, il crimine organizzato vale il 10 per cento del reddito nazionale. Tra il 1975 e il 2007 la criminalità ha sottratto il 16 per cento del Pil al Mezzogiorno. Il fatturato annuo del traffico di stupefacenti è di circa 60 miliardi di euro, quello della prostituzione è stimato in 7,5 miliardi. Usura, estorsione, traffico d’armi, traffico di esseri umani, contrabbando di sigarette valgono 841 milioni. Altre attività economiche illegali (contraffazione, rifiuti, abusivismo edilizio, gioco d’azzardo) sono diffuse ma di difficile quantificazione.
[x] L’Italia ha tassi di istruzione universitaria molto più bassi della media europea. Nel 2017, l’Italia era ultima in Europa per numero complessivo di laureati, con un 26,2 percento.
[xi] A causa di un trasporto pubblico deficitario, l’Italia è il paese dell’EZ con il più alto numero di automobili: 61 ogni 100 abitanti, contro i 54 dell’EZ.
[xii] Nella scala tra 0 (paese estremamente corrotto) e 100 (paese non corrotto) del Corruption Perceptions Index 2017, l’Italia è cinquantaquattresima su 180 paesi, con 50/100 – poco al di sopra della media globale (43).
[xiii]In Italia si accolgono 2,4 “richiedenti asilo” ogni mille abitanti; in Germania 8,1. In Italia, 2,4 milioni di “immigrati (non rifugiati)” hanno prodotto 130 miliardi di valore aggiunto (l’8,9 per cento del Pil), più di quanto abbiano prodotto Ungheria, Slovacchia e Croazia. Fossero un’economia a sé stante, sarebbero la 17a in Europa.
[xiv] In Italia è laureato solo il 12 per cento degli immigrati, in Germania il 25, in Francia il 33, e nel Regno Unito il 54.
[xv] La povertà in Italia si attesta a livelli costantemente superiori rispetto sia all’aggregato E6 sia all’Ue28.
[xvi] Se le donne italiane lavorassero quanto gli uomini il Pil sarebbe più alto del 10-15 per cento.
[xvii] Le tasse sono alte: l’aliquota d’imposta sul reddito può raggiungere il 43,0 per cento e quella sulle società il 31,4. La differenza tra quanto pagato dal datore di lavoro e quanto ricevuto dal lavoratore (il cuneo fiscale) è il 47 per cento. Per esempio, se un lavoratore costa 31.000 euro all’azienda, ne riceve 16.500. Gli altri (i cosiddetti costi non salariali) vanno in tasse e contributi sociali a carico dei datori di lavoro. Allo stesso tempo, il peso dell’economia sommersa è stimato tra il 16,3 e il 17,5 per cento del Pil. Evasione ed elusione fiscale sono diffuse (190 miliardi di euro nel triennio 2011-2013), con un’incidenza crescente sul Pil, dall’11,4 per cento del 2011 all’11,8 del 2013.
[xviii] I rischi per l’economia e per le finanze pubbliche sono accresciuti dalla debolezza delle banche. Per i necessari aumenti di capitale servono 40 miliardi di euro (equivalenti al 2.5 per cento del Pil). L’intero settore va ricostruito: l’attività di intermediazione è letargica e anche le aziende più produttive sono a corto di credito. La redditività è bassa. Per evitare ulteriori interventi pubblici, i bilanci degli istituti in crisi vanno messi in ordine – risolvendo le sofferenze.
[xix] Le elezioni politiche si terranno domenica 4 marzo 2018 e rinnoveranno dei due rami del Parlamento – il Senato della Repubblica e la Camera dei deputati. Saranno regolamentate dalla legge elettorale del 2017, soprannominata Rosatellum bis, alla sua prima applicazione.
[xx] In tutto il paese, non solo nel Sud, i partiti hanno per decenni usato risorse pubbliche per erogare favori, posti di lavoro, sussidi e protezioni – in cambio di voti.
[xxi] Le relazioni sono più importanti della capacità: impiego, ricchezza e potere dipendono più dalla “nascita” che dal talento e dalla capacità di lavoro. La selezione manageriale si basa sulla fedeltà piuttosto che sulla competenza.
[xxii] Solo un esempio, in tema di lavoro e competitività: negli anni ’60 e ’70 del 1900, i sindacati italiani demonizzarono il modello tedesco (la cogestione). Al grido di “i padroni sono i nostri nemici”, polarizzarono il dibattito, ignorando l’interesse d’impresa. La risposta di Confindustria fu altrettanto sbagliata: in difesa del capitale e del capitalismo monopolista, non dell’impresa e del mercato; del proprio interesse, non dell’interesse comune. I partiti, in maniera miope, intervennero a difesa dell’una e dell’altra posizione – incapaci di alzare il livello. Intanto, in Germania, la cogestione dell’impresa esposta alle forze di mercato si rivelava foriera di innovazione.
[xxiii] L’amministrazione pubblica – fattore critico per lo sviluppo economico e sociale – è inefficiente, con politiche di gestione del lavoro anacronistiche. Pur con differenze importanti (rispetto a Roma, Milano offre servizi pubblici migliori e meno costosi), milioni di dipendenti e decine di migliaia di enti offrono servizi inadeguati ai cittadini.
[xxiv] Nell’indice Doing Business 2018 della Banca Mondiale, l’Italia è quarantaseiesima su 190 paesi, con 72,70/100 – al di sotto dei maggiori paesi europei e della media OCSE (77,65). Per aprire una nuova attività ci vogliono, in media, 16 procedure diverse e circa 5.000 euro. Il sistema giudiziario – considerato carente dal 75 per cento delle piccole e medie imprese (Pmi) – è notoriamente lento: in media, per risolvere una causa civile i tribunali ci mettono 2.000 giorni. La procedura di fallimento dura un decennio, più del 90 per cento delle imprese sono liquidate e ai creditori viene rimborsato solo il 14 per cento del denaro loro dovuto.