categoria: Vendere e comprare
La lezione di Ryanair e Uber: la reputazione è il tallone d’achille delle aziende
Una azienda per svolgere la sua attività acquisisce tutti i fattori produttivi necessari, in sostanza può comprare tutto, dal lavoro alle materie prime, tranne la reputazione. Quest’ultima infatti non si compra, si costruisce. Purtroppo, rispetto ad altre tipologie di “immobilizzazioni” immateriali, la reputazione – specialmente al tempo dei social network – risulta molto fragile, dunque a rischio di rovinarsi (rischio reputazionale) con conseguenti impatti sulla redditività dell’azienda stessa.
Le recenti vicende che hanno coinvolto Uber e Ryanair pongono alcuni interrogativi. Partiamo con ordine.
La notizia relativa alla revoca delle licenze per Uber in UK, paese notoriamente di matrice fortemente liberista, stupisce alquanto. L’impatto per Uber, che ora aspetta il verdetto dell’appello, rischia di essere molto pesante, visto che a Londra (tra le poche metropoli non statunitensi ad avere accordato una licenza alla società californiana) operano 40mila driver per una platea di 3,5 milioni di clienti.
Uber si è contraddistinta per un nuovo, spregiudicato modello di business che ha messo in discussione lo status quo: lo abbiamo visto in mezza Europa e anche nel nostro Paese, con la rivolta dei taxisti. In particolare si è caratterizzata nel basare la propria attività sull’utilizzo di un esercito di driver così detti “a partita Iva”.
Altro caso: Ryanair, la più famosa compagnia aerea irlandese. In un contesto di forte rigidità della compagnia, dovuta ad una serie di decisioni aziendali, si è aggiunta la vicenda dei voli cancellati derivanti da una “gestione” rischiosa del personale pilota: il piano ferie, secondo l’azienda, la fuga verso altre compagnie per gli stipendi bassi, secondo diverse testimonianze di ex piloti.
La cancellazione dei voli rappresenta meno del 2% del traffico aereo gestito dal vettore, eppure l’effetto in borsa ha visto un picco di discesa vicino al 10%.
Sia Uber che Ryanair si sono presentate come “diverse” e “innovative”. La prima si è posizionata come startup miliardaria della “sharing economy”, la seconda come una compagnia “low cost” molto più efficiente e redditizia dalle altre, diventata in pochi anni il primo vettore europeo.
Colpisce vedere queste due aziende simbolo del “nuovo”, chiave del successo, barcollare come un pugile colpito duramente dal suo avversario.
In realtà si sono scontrate con problematiche che riguardano tutte le aziende sia old economy sia new economy. Questo perché pur essendo “new” sul profilo dell’offerta di prodotto, si son trovate come tutte le altre realtà aziendali a dover rispondere alle stesse regole di mercato.
Evidentemente nessuna azienda può pretendere di concorrere ad armi impari: turni di lavoro e livelli di retribuzione non adeguati per i piloti, come nel caso Ryanair; traslare su un esercito di così detti self-employed questioni di sicurezza del trasporto di persone, come nel caso di Uber.
Nella gestione di un’azienda il rischio reputazionale va sempre tenuto in alta considerazione: abbiamo visto in questi due casi come può incidere a tal punto da mandarle in crisi e pregiudicare il proprio futuro.
Prima di tutto non si può pensare di creare valore semplicemente rischiando e non gestendo in maniera strategica i rischi assunti. Il problema principale per le aziende è non rendersi conto dei potenziali rischi connessi alla propria reputazione.
Cosa possono fare le aziende?
È necessario investire nella diffusione della cultura del rischio. L’approccio deve essere quello di una visione olistica della gestione del rischio, seguendo un impostazione di Enterprise Risk Management (ERM), che comprenda pertanto anche la valutazione del rischio reputazionale al pari del rischio di mercato.
La morale è semplice. Chi pensa di giocare senza badare alle regole del gioco, rischia molto, se non tutto.
Twitter @pasqualemerella