Perché le banche sono tanto odiate? Un decalogo per tirarle fuori dai guai

scritto da il 03 Luglio 2017

La reputazione delle banche è ai minimi storici. La fiducia nei loro confronti pure. Ogni poco ne fallisce una. I correntisti hanno paura, i risparmiatori non si sentono tutelati, i cittadini considerano ingiusto che – con denaro pubblico – si salvi chi, per mero guadagno, ha provocato la crisi.

Eppure, il loro ruolo è fondamentale. Senza banche l’economia non gira. Per funzionare, il sistema economico ha bisogno di: 1) banche commerciali, che raccolgano (con obbligo di rimborso) il risparmio domestico e lo trasformino in investimenti produttivi nell’economia reale; e 2) banche d’investimento, che assistano le imprese nelle operazioni straordinarie (aumenti di capitale, emissione e collocamento di titoli, acquisizioni, fusioni, ristrutturazioni, cessioni, scissioni) e amministrino i patrimoni privati (gestione di portafoglio attraverso fondi d’investimento).

Perché siamo arrivati a questo punto? Per mancanza di visione, avidità, poca professionalità. Negli ultimi 30 anni, le banche non hanno risposto in maniera adeguata ai cambi macroeconomici e alle dinamiche di settore. Hanno rinunciato a capire la complessità del contesto e si sono concentrate sulla ricerca del profitto a breve termine. In altre parole, hanno dimenticato il loro ruolo nella creazione di valore economico e sociale, finendo per operare in opposizione alle esigenze di produzione, crescita e occupazione. Nel loro “modello di business”, l’attività di intermediazione del credito è diminuita ed è aumentata quella d’investimento nei mercati finanziari, con una maggiore assunzione di rischi. Sotto l’occhio a volte impreparato e spesso compiacente dei regolatori, sono progressivamente venuti a mancare tre elementi essenziali del settore bancario, quali: 1) l’equilibrio tra i rapporti di attività e passività (i.e.: la struttura dello “stato patrimoniale” è diventata più fragile); 2) la professionalità – e spesso l’onestà – di molti banchieri;  e, inevitabilmente, 3) la fiducia dei clienti nella loro banca. Un (non breve) excursus storico chiarirà quanto affermato.

Dopo la II guerra mondiale il circolo è virtuoso: l’economia reale cresce, le banche prestano (e guadagnano). Fino agli anni ‘70, le banche commerciali seguono un “modello di business” tradizionale: raccolgono i depositi delle famiglie e – dopo un’analisi di rischio – fanno prestiti a imprenditori e aziende. La struttura del loro “stato patrimoniale” è semplice e chiara: i depositi vengono classificati come passività (parte del “passivo”), mentre i prestiti al settore reale – una volta concessi – diventano attività (parte dell’“attivo”).

Grazie all’intermediazione del credito, le banche svolgono anche una (più o meno consapevole) funzione di sviluppo, essenziale alla crescita: garantiscono che risorse limitate finanzino progetti meritevoli – per lo più investimenti del settore privato. In altre parole, i prestiti bancari (l’“attivo”), stimolando l’attività economica, contribuiscono alla crescita del prodotto interno lordo (Pil) e ad un aumento dell’occupazione. Una forte domanda d’investimento viene dal settore tecnologico-informatico, trainato da innovazioni pro-produttività. Tassi di interesse elevati garantiscono una redditività più che buona.

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Negli anni ’80 la crescita dipende dal debito, e il capitalismo finanziario prende il sopravvento sul capitalismo industriale. Nei paesi avanzati, l’invecchiamento della popolazione riduce i consumi e aumenta il risparmio. I tassi di interesse reali a lungo termine iniziano a scendere. La crescita economica decelera e dipende sempre più dall’accumulazione di debito (privato e pubblico).  Con la liberalizzazione dei movimenti di capitale, le dimensioni del settore finanziario rispetto al Pil si espandono. Con la “finanziarizzazione” dell’economia (financialization), chi gestisce il denaro (l’economia finanziaria) diventa più importante di chi produce beni e servizi (l’economia reale). La finanza diventa essa stessa “prodotto” – inizio e fine del ciclo produttivo – e mette in secondo piano il ciclo produttivo tradizionale, in cui il prodotto dipende dall’interazione tra territorio, impresa, capitale, lavoro e tecnologia. Non è un fenomeno nuovo: negli Stati Uniti era già successo tra fine 1800 e inizio 1900, quando – con la nascita dei grandi trust e la conseguente accumulazione (e concentrazione) di ricchezza e potere – un settore finanziario sempre più grande e complesso mise le basi per la crisi del 1929.

Negli anni ’90 si riduce la  domanda di credito, i profitti scendono. Nonostante la costante riduzione dei tassi di interesse, la domanda di credito scende. La grandi aziende, “Corporate America” in testa,  iniziano ad ammassare liquidità sotto forma di cash e asset a breve. Le banche fanno sempre meno prestiti e vedono scemare la loro principale fonte di guadagno, il “reddito da interessi” (interest income). Le passività (il risparmio delle famiglie) non rendono. Per farle fruttare, le banche adocchiano i proventi da “commissioni e provvigioni” (fee income); per accedervi, devono essere in grado di investire i depositi.

Per tornare a guadagnare, le banche spingono la deregulation. In grado di influenzare il policymaking, l’oligarchia finanziaria spinge per una forte deregolamentazione del settore. Negli Stati Uniti, nel 1999 viene abrogata, sotto la presidenza Clinton, la legge Glass-Steagall – approvata nel 1933, durante la presidenza Roosevelt, per separare banca commerciale e banca d’investimento. Le banche d’investimento possono tornare a fondersi con le banche commerciali, rendendo così il “passivo” di queste ultime (le risorse dei depositanti) disponibile ad essere investito.

Attratte dagli alti rendimenti dei mercati finanziari, le banche investono – invece che prestare all’economia reale (e tradiscono il rapporto fiduciario con i depositanti). Sempre meno regolamentati, gli istituti di credito adottano un “modello di business” più rischioso: 1) diminuiscono l’attività di prestito all’economia reale (percepita come un esercizio laborioso e meno redditizio); 2) delegano il controllo dei rischi alle (spesso compiacenti) agenzie di rating; e 3) assumono maggiori rischi, investendo le proprie passività (i depositi delle famiglie) nei mercati finanziari, in crescita in quel momento. Il rapporto fiduciario si incrina: con i risparmi loro affidati, le banche fanno investimenti a rischio.

La redditività aumenta, ma il contributo delle attività bancarie alla crescita del Pil e alla generazione di posti di lavoro diminuisce. Le banche entrano in operazioni sempre più distanti da quelle di intermediazione del credito tra depositanti (risparmiatori) e mutuatari (imprenditori e aziende). La struttura del loro “stato patrimoniale” cambia significativamente, soprattutto per quanto riguarda la composizione dell’“attivo”, più esposto a strumenti finanziari redditizi ma rischiosi – quali azioni, obbligazioni e mercato immobiliare. Gli strumenti finanziari illiquidi aumentano i rischi di valutazione e dunque di contagio: in caso di caduta dei mercati, gli  “attivi”- iscritti a costo storico nello “stato patrimoniale” – devono essere valutati a prezzo di mercato (mark to market). Per mitigare (e per nascondere) i rischi, le banche comprano prodotti derivati over-the-counter (Otc).

Le banche diventano sempre più grandi, standardizzate, staccate dal territorio. Alla ricerca di economie di scala per diluire i rischi assunti e diminuire i costi, le grandi banche si dedicano a attività di fusione e acquisizione (M&A). Con il beneplacito dei regolatori, comprano piccole banche locali, riducendo la concorrenza e aumentando la concentrazione del settore.

Le banche locali – tradizionalmente dotate di rapporti di lunga data e di informazioni qualitative – perdono la relazione privilegiata con i propri clienti e subiscono una standardizzazione dei processi, delle impostazioni aziendali (corporate settings) e del “modello di business”, perdendo importanti vantaggi, quali: a) la capacità di monitorare i rischi delle famiglie e delle imprese locali; e b) la libertà nell’allocazione dei loro depositi. I prestiti al settore privato locale diminuiscono ulteriormente, le piccole e medie imprese (Pmi) vengono private del credito, si crea sempre meno occupazione.

Aumenta la complessità del sistema finanziario. Le grandi banche, “too big to fail”, ignorano i dettami del regolatore. Il sistema finanziario diventa più concentrato e complesso, con meno istituzioni ma di dimensioni maggiori,dipendenti l’una dall’altra per la loro sopravvivenza. Spesso, le banche fanno prestiti senza che nel loro “stato patrimoniale” sia presente la corrispondente passività (un deposito); di fatto – creando un attivo per sé e potere di acquisto per il prestatario – battono moneta. I modelli standardizzati delle agenzie di rating non riescono a catturare adeguatamente i rischi. Nel corso del tempo, le banche assumono rischi finanziari sempre maggiori, in gran parte non controllati, e alcune diventano “troppo grandi per fallire” (“too big to fail”), per essere regolate e per poter funzionare. Aumentano i rischi sistemici: più la banca è grande e più è propensa a rompere le regole. Negli Stati Uniti, le 10 più grandi istituzioni finanziarie controllano il 75 per cento degli attivi del settore bancario.

Scoppia la crisi del 2008, le banche vengono salvate. Nell’autunno del 2008, il mercato interbancario smette di funzionare,  gli istituti di credito non si scambiano il denaro tra loro e senza l’intervento delle autorità monetarie – che iniettano abbondante liquidità – il mondo della finanza collasserebbe. Le banche centrali forniscono finanziamenti a costo zero e la possibilità di riparare lo “stato patrimoniale” acquistando debito pubblico (garantito dal loro stesso intervento, e dunque privo di rischi).

Socializzazione delle perdite, privatizzazione dei guadagni, bassa crescita. I cittadini provano rabbia e diffidenza, e denunciano l’ingiustizia: le perdite derivanti dall’assunzione di rischi eccessivi divengono pubbliche, mentre i precedenti guadagni rimangono privati. I mercati finanziari non hanno trasformato il risparmio in ricchezza. Ancora una volta, la composizione dello “stato patrimoniale” delle banche cambia: le passività (i depositi dei risparmiatori) sono ora allocate in attivi più sicuri e a redditività più bassa: titoli di stato e depositi presso le banche centrali. I prestiti al settore privato diminuiscono ulteriormente. La crescita ristagna. Aumenta la percentuale degli “attivi sicuri” sul totale degli “attivi bancari”, impattando negativamente il conto economico: le banche guadagnano meno.

La regolamentazione diventa più attenta, aumentano i requisiti patrimoniali prudenziali. L’ambiente normativo e regolatorio si fa più severo, volto a sviluppare la resistenza del sistema bancario sia all’incertezza che alle turbolenze. Gli Accordi di Basilea obbligano le banche ad aumentare il loro capitale statutario in base ai rischi che hanno in bilancio (Basilea III richiede il 4,5 per cento di Common Equity Tier 1), costringendo le banche tradizionali a scegliere tra una minore redditività e il rischio di ricevere sanzioni. Oggi, le banche che combinano l’attività di banca commerciale e d’investimento sono poche – ma tutte di grandi dimensioni: esempi sono Citi, JPMorgan, Bank of America, Deutsche.

Le banche prestano meno e guadagnano meno. La redditività bancaria soffre: a) condizioni macroeconomiche più deboli; b) scarsezza di capitale impiegabile in attività di prestito; c) una riduzione delle commissioni e del reddito generato dal trading; e d) aumento dei costi ricorrenti. Soffrono in particolare le istituzioni (compagnie di assicurazione e di fondi pensione) che offrono prodotti a rendimento garantito a lungo termine. La riduzione dei costi diventa imprescindibile.

Negli ultimi 10 anni il quadro macroeconomico diventa ancora più difficile. I tassi di interesse reali continuano il loro declino e la crescita ristagna (stagnazione secolare): a) alti livelli di debito – sia pubblico che privato – limitano gli investimenti e la crescita della produttività; b) la disoccupazione mantiene i salari fermi e i redditi reali stagnanti, indebolendo la domanda aggregata; e c) la riduzione della leva finanziaria incrementa i risparmi programmati. Il risparmio globale delle grandi aziende, Corporate America in testa, sale nel 2015 a quasi il 14 per cento del Pil mondiale, dal 9 nel 1980. L’innovazione rallenta il ritmo e – di conseguenza – la produttività scende. Il settore reale riduce ulteriormente la sua domanda di credito, con un impatto negativo sulla redditività.

Il contesto competitivo sta cambiando ancora. L’attività bancaria è in trasformazione. La tecnologia agevola i concorrenti non tradizionali: le piattaforme digitali, le blockchains e l’autenticazione biometrica per le transazioni di pagamento stanno riducendo i posti di lavoro. Con l’electronic banking, le filiali diventano ridondanti. Il “sistema bancario ombra” (shadow banking) è in crescita costante. Diviene più sottile la linea di confine tra conformità legale e fiscale da un lato, e il mantenere il segreto bancario dall’altro. L’aumento della disuguaglianza e la concentrazione della ricchezza portano a una crescita dei depositi dei super-ricchi (ultra high-net-worth individuals – individui dotati di un patrimonio netto di almeno 30 milioni in dollari del 2012), mentre l’incertezza spinge la domanda di asset sicuri.

Cosa succederà? In futuro, le banche continueranno ad affrontare un contesto difficile e una diminuzione della redditività a causa di: a) complesse prospettive macroeconomiche e politiche; b) una regolamentazione sempre più coercitiva; e c) l’aumento della concorrenza da parte del “sistema bancario ombra” e delle aziende fintech. Nei prossimi anni le banche internazionali continueranno ad allontanarsi dall’attività di retail banking e a vendere le franchigie in perdita. Le banche regionali avranno maggiori opportunità. Negli Stati Uniti, il presidente Trump e il Congresso spingeranno per una maggiore deregolamentazione. L’Unione Europea si concentrerà sullo sviluppo di meccanismi di assicurazione e di salvataggio dei depositi, ma le vulnerabilità del settore finanziario non saranno affrontate di petto; de facto, come in Giappone, tassi di interesse negativi tasseranno le banche che mantengono riserve, senza incoraggiare l’attività di prestito. Trattamenti fiscali diversi in giurisdizioni diverse creeranno forti divergenze.

Per sopravvivere, è necessaria una gestione più capace e responsabile, non un capitale più elevato. Quando l’economia reale cresce, le banche fanno profitti, e a loro volta – grazie all’esercizio del  credito – favoriscono produzione, crescita e occupazione. Il circolo è virtuoso. Senza crescita dell’economia reale, invece, le banche tendono a dimenticare il loro ruolo di intermediazione; anziché facilitare la crescita cercano profitti in altro modo, nelle attività di investimento a rischio e di M&A.

Ecco il decalogo. A lungo termine, tuttavia, prospereranno solo le banche in grado di:

1) capire la complessità del contesto;

2) puntare su competenza, professionalità e specchiata moralità dei propri dirigenti;

3) creare valore economico e sociale attraverso l’intermediazione del credito e il monitoraraggio dei rischi;

4) trovare una presenza geografica ottimale per le loro operazioni;

5) ridurre la loro vulnerabilità alle pressioni regolatorie (in particolare, a un aumento dei requisiti patrimoniali e all’irrigidimento di autorizzazioni e regolamenti);

6) collaborare con le autorità monetarie per:

  a) affrontare la minaccia sistemica derivante da attività non regolamentate (su tutte, shadow banking e fintech);

  b) migliorare l’attività regolatoria, richiedendo maggiore competenza e meno automatismi dettati da meri modelli quantitativi; e

c) trovare il giusto equilibrio tra conformità legale e fiscale da un lato, e segreto bancario dall’altro;

7) utilizzare la concorrenza tra shadow banks e fintechs a proprio vantaggio;

8) rimanere redditizie, aumentando l’efficienza e riducendo il costo dei loro modelli operativi attraverso ristrutturazioni, chiusura di succursali e digitalizzazione dei processi;

9) mantenere l’equilibrio tra i rapporti di attività e passività affinché il loro “stato patrimoniale” sia solido; e – cosa più importante:

10) ristabilire il rapporto di fiducia e una relazione privilegiata con i propri clienti, prestando servizi utili a soddisfare le loro esigenze, quali una gestione patrimoniale personalizzata, con capacità di riservatezza e protezione dei dati.