categoria: Res Publica
L’Italia in tre metafore (forza, altrimenti non ce la facciamo)
Al marziano appena atterrato, l’Italia si spiega con tre metafore: 1) un bel corallo, morto; 2) i 66 funzionari addetti alla casa natale di Pirandello; e – purtroppo – 3) la figura dell’“eroe suo malgrado”.
1. Un bel corallo, morto. Il corallo è costruito da colonie di piccoli polipi – gli antozoi (letteralmente: “fiori animali”, dal greco ἄνθος e ζῷον), che per proteggersi e sostenersi si dotano di uno scheletro calcareo – ed è colorato dalle alghe che, in simbiosi con gli antozoi, li nutrono. Quando il corallo muore, sbianca.
Lo splendido “corallo Italia” attira ogni anno turisti a milioni (82.8 nel 2016, in crescita rispetto agli 81.6 del 2015), attratti dall’incanto dei luoghi e dal patrimonio artistico. Tanta ricchezza è stata costruita, nel corso di millenni, da un’intelligente interazione tra uomo e natura, capace di trasformare l’iniziale povertà in bellezza e qualità della vita. Poco a poco, la dinamicità degli artigiani e la capacità d’innovazione degli imprenditori hanno dato vita a prodotti che – diventati parte della tradizione – hanno ottenuto il riconoscimento dei mercati globali. Ne sono risultate cultura, crescita e occupazione. L’Italia è il secondo produttore manufatturiero in Europa e il quinto nel mondo, e l’ottavo esportatore mondiale con 417 miliardi di euro venduti all’estero nel 2016.
Da alcuni decenni, però, il corallo soffre, non si rigenera. In molti casi – pur continuando ad attrarre turisti – è addirittura morto. Bellissimo, ma morto (qui a sinistra).
L’eccezionale paesaggio delle Cinque Terre, disegnato dall’uomo e dal suo lavoro, ne è triste esempio. Fino agli anni settanta, i borghi – abbarbicati alla costa – erano vissuti. Le case dai vivaci colori erano abitate, sulle soglie le donne cucivano le reti dei mariti. Nei vicoli si salavano acciughe, c’era odore di mare. Sui terrazzamenti strappati alla roccia (qui a destra) si coltivavano uliveti e vigneti, si produceva Sciacchetrà. Le comunità erano costrette al dinamismo dalla povertà. Nonostante le asperità della vita, con pazienza e con fatica si produceva bellezza, in simbiosi con la natura. Il corallo era vivo.
Oggi, molti terrazzamenti sono franati, parecchie vigne sono state abbandonate. Nei bei borghi impomatati – svuotati dall’emigrazione giovanile e da alti tassi d’anzianità – quasi nessun lavoratore è autoctono. Nei vicoli, masse vocianti seguono percorsi identici; signore eleganti, incerte sui i tacchi, lasciano costose scie di profumo. Nelle case, invase da negozi di lusso, non si vive più. Il corallo è morto. La linfa sociale che l’aveva costruito è scomparsa, è rimasto un bel guscio vuoto.
Problema (da affrontare): alla lunga, il vivere di rendita comporta Disneyzzazione. Non solo nelle Cinque Terre, ma in quasi tutta la Liguria, e nell’Italia intera, gli abitanti – se possono – cercano di vivere di rendita. Il loro capitale è la bellezza, anche se svuotata d’identità. La propensione al rischio è minima. Paesaggio, cultura e tradizioni vengono venduti al turismo di massa, che consente buoni guadagni senza troppi sforzi. Nel 2016 il turismo ha fatturato circa 173 miliardi e ha contribuito all’11,8 per cento del prodotto interno lordo (Pil) e al 12,8 per cento dell’occupazione, dando lavoro a 3,1 milioni di persone. Tuttavia, “vendere” gloria passata – senza investire per costruirne di nuova – rischia di far diventare l’Italia una Disneyland delle classi medie dei paesi emergenti, i cui flussi sono in continua crescita. Commercializzare vestigia di uno splendore costruito da antenati più laboriosi è strategia miope: il corallo morto – è utile ricordare – si sgretola poco a poco.
Soluzione: lavorare e innovare, per tornare a crescere. Negli ultimi 20 anni, innovazione e competitività si sono mantenute al di sotto della media europea. Senza antozoi a produrre carbonato di calcio, senza alghe a colorarlo, il corallo diventa attrazione statica – senza prospettiva dinamica, senza futuro. Affinché prosperi, ci vogliono linfa sociale, volontà e spirito di sacrificio. L’Italia – che innova da sempre – per evitare stagnazione culturale e ulteriori perdite di competitività deve: a) ritrovare l’etica del lavoro; far fatica non deve fare paura; b) aumentare dinamicità e produttività; c) attrarre investimenti; e d) reinnescare l’evoluzione del sistema economico per creare crescita e impiego. Il lavoro e l’innovazione rendono, sia in termini di cultura che di ricchezza. In particolare, nel settore servizi vanno eliminate le barriere all’ingresso e va evitato il turismo “mordi e fuggi”, investendo in strutture di qualità e allungando il soggiorno medio.
2. I 66 funzionari della casa natale di Pirandello. A 7 chilometri da Agrigento e a 5 dalla Valle dei Templi c’è la casa natale di Pirandello (qui a destra). Circa 100 metri quadrati, dà lavoro a 66 funzionari, di cui 14 custodi. Per mancanza di risorse (i soldi per i salari ci sono, quelli per la manutenzione no) soffre di degrado: le ultime riparazioni sono di 15 anni fa, ed è spesso chiusa.
Non succede solo ad Agrigento. In Sicilia, gli 87 siti della Regione costano 67 milioni all’anno; tra funzionari e addetti, ci sono 1.545 persone a libro paga. Nei musei e nei siti archeologici – a fruibilità limitata e dagli orari incerti, soprattutto nei fine settimana – capita che ci siano più custodi che visitatori. Nel 2016 la Corte dei Conti ha segnalato “sprechi” per oltre 55 milioni di euro. Nel 2013, il parlamento regionale (90 deputati) costava 164 milioni, più del doppio della Lombardia (80 consiglieri, 68 milioni), tre volte la Puglia, cinque volte l’Emilia Romagna, ben un sesto della spesa di Montecitorio (630 parlamentari).
Problema (da affrontare): il clientelismo comporta corruzione, inefficienza, paralisi e stagnazione. Non succede solo in Sicilia. In tutto il paese, i partiti usano risorse pubbliche per erogare favori, posti di lavoro, sussidi e protezioni – in cambio di voti. Il consenso elettorale e gli interessi particolari contano più del bene comune. Il sistema politico si concentra sulla conservazione dei privilegi. Il clientelismo (un fenomeno antico, in tutte le classi sociali) e l’occupazione partitica delle istituzioni generano corruzione. I casi dell’ospedale San Raffaele a Milano e del Modulo Sperimentale Elettromeccanico (Mose) di Venezia sono esempi noti. Nella scala tra 0 (paese estremamente corrotto) e 100 (paese non corrotto) del Corruption Perceptions Index 2016, l’Italia è sessantesima su 176 paesi, con 47/100 – poco al di sopra della media globale (43).
L’amministrazione pubblica – fattore critico per lo sviluppo economico e sociale – è inefficiente, con politiche di gestione del lavoro anacronistiche. Strutture di potere costituito ostacolano la meritocrazia. Pur con differenze importanti (rispetto a Roma, Milano offre servizi pubblici migliori e meno costosi), milioni di dipendenti e decine di migliaia di enti offrono servizi inadeguati ai cittadini. Per aprire una nuova attività ci vogliono, in media, 16 procedure diverse e circa 5.000 euro. Il sistema giudiziario – considerato carente dal 75 per cento delle piccole e medie imprese (Pmi) – è notoriamente lento: in media, per risolvere una causa civile i tribunali ci mettono 2.000 giorni.
La procedura di fallimento dura un decennio, più del 90 per cento delle imprese sono liquidate e ai creditori viene rimborsato solo il 14 per cento del denaro loro dovuto. Nell’indice Doing Business 2016 della Banca Mondiale, l’Italia è cinquantesima su 190 paesi, con 72,25/100 – al di sotto dei maggiori paesi europei e della media OCSE (77,65). Inevitabilmente, corruzione e inefficienza comportano bassa competitività, bassa crescita, e bassa occupazione. Negli ultimi 20 anni, il Pil è cresciuto a una media annuale dello 0,46 per cento. Il Pil pro capite è bloccato al livello di fine-1990. Il tasso di disoccupazione (11,1 per cento) è al di sopra dei livelli pre-crisi e alla media dell’area euro (9,5 per cento).
Soluzione: ridurre le rendite di posizione, favorire la meritocrazia. Non sarebbe difficile rimediare: l’agenda è nota, le priorità ben conosciute, le soluzioni già sperimentate in altri paesi: a) ridurre le rendite di posizione e favorire la meritocrazia – per esempio, con accesso alla dirigenza tramite concorso; b) agilizzare il sistema giudiziario e migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione – per esempio, con la digitalizzazione del coordinamento tra enti, l’instaurazione di processi di apprendimento organizzativo attraverso sistemi di benchmark, la disseminazione di best practice attraverso la mobilità del personale, la ristrutturazione dei servizi pubblici (i.e.: educazione, sanità, acqua, rifiuti, energia, trasporti – soprattutto a livello locale); e – cosa ben più difficile – c) costruire il senso di consapevolezza e responsabilità di appartenere ad una collettività – la virtù civica.
3. L’eroe “suo malgrado”. “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi” è la frase che – nella Vita di Galileo – Bertolt Brecht attribuisce allo scienziato dopo l’umiliante abiura di fronte all’Inquisizione. C’è bisogno di eroi quando: a) mancano giustizia e libertà; b) prevalgono sfiducia, disimpegno, mediocrità morale, servilismo, corruzione e illegalità; e c) il livello di “scienza e coscienza (civile)” è basso.
L’Italia – spiace scriverlo – ha bisogno di eroi. Leggi e regolamenti tendono a favorire le élite, che così si appropriano di risorse altrimenti pubbliche. La mobilità sociale è limitata. Le relazioni sono più importanti della capacità: impiego, ricchezza e potere dipendono più dalla “nascita” che dal talento e dalla capacità di lavoro. La selezione manageriale si basa sulla fedeltà piuttosto che sulla competenza. Il nepotismo spinge all’emigrazione individui formati a caro prezzo. Le politiche pubbliche sono disegnate per mantenere lo status quo, non per ottenere giustizia sociale.
I dati lo confermano: il peso dell’economia sommersa è stimato tra il 16,3 e il 17,5 per cento del Pil. Evasione ed elusione fiscale sono diffuse (190 miliardi di euro nel triennio 2011-2013), con un’incidenza crescente sul Pil, dall’11,4 per cento del 2011 all’11,8 del 2013. L’economia illegale rappresenta circa l’11 per cento del Pil. Il fatturato annuo del traffico di stupefacenti è di circa 60 miliardi di euro, quello della prostituzione è stimato in 7,5 miliardi. Usura, estorsione, traffico d’armi, traffico di esseri umani, contrabbando di sigarette valgono 841 milioni. Altre attività economiche illegali (contraffazione, rifiuti, abusivismo edilizio, gioco d’azzardo) sono diffuse ma di difficile quantificazione.
In tale contesto, molti cittadini – seguendo il loro senso del dovere “onestamente e senza viltà” – si sono trovati a compiere gesti straordinari. Sono considerati eroi, ma preferirebbero non esserlo. Gli esempi abbondano. Non si considerano eroi: a) il cittadino Marocchino Abdul Razzaq Ida, ambulante a Lecce, per aver riportato il portafoglio al proprietario; b) il poliziotto Perretta, che ha salvato un anziano; c) il sorvegliante Mohammad Guyele e il soldato-infermiere Federico Rappazzo, per aver salvato un bimbo travolto dalla folla in piazza San Carlo a Torino, durante la la finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid; d) il comasco Cappelletti, che ha salvato un militare precipitato con l’elicottero sul San Gottardo; e) il giornalista antimafia Paolo Borrometi; f) il dirigente della regione Sicilia Bellomo, per aver collaborato all’inchiesta su presunte tangenti sul trasporto marittimo; g) l’imprenditore Bentivoglio, che ha denunciato le richieste estorsive della criminalità organizzata in Calabria; e h) il medico Bartòlo, che a Lampedusa ha soccorso 285mila migranti dal 1991 ad oggi.
Più tristi e noti sono i casi dell’avvocato Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, del prefetto di Palermo generale Dalla Chiesa, dei magistrati anti-mafia Falcone e Borsellino (qui a destra), del giuslavorista Marco Biagi. Si consideravano al servizio dello Stato e della società e hanno pagato con la vita.
Problema (da affrontare): se solo gli eroi fanno il loro dovere, cosa fanno gli altri? In paesi con più alto senso civico, il valore della legalità e il rispetto delle regole sono presupposti di cittadinanza. Chi ha senso del dovere non è considerato un eroe, bensì un cittadino che, consapevole delle proprie responsabilità, si prende l’onere di essere “normale” e fa il suo mestiere, con professionalità. In paesi meno sviluppati, il mito dell’eroe – attribuendo solo a pochi il dovere di rispettare lo Stato e la legge – permette di ignorare i propri obblighi.
Soluzione: il senso del dovere, l’etica del lavoro, la partecipazione non devono essere eccezioni. Rivendicare diritti non basta, ci vogliono i doveri. Nella polis greca la partecipazione era un dovere. Il “De officiis” (Sui doveri) di Cicerone, la seconda parte della Summa theologiae di Tommaso d’Aquino, il libro Dei doveri dell’uomo di Mazzini indicano i doveri cui ogni cittadino deve attenersi in quanto membro dello stato e della società. La Costituzione – nei principi fondamentali, all’articolo 2 – richiede l’adempimento di doveri inderogabili. L’articolo 54 co. 2 impone ai “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche” (…) “il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Chi ottempera a tale dovere dovrebbe esser considerato “normale”, non eroe. Chi lo ignora, non va considerato “nella norma” – in quanto distrugge le basi stesse di comunità e società. Insomma, per garantire coesione e sviluppare il paese sono necessari civismo, senso di appartenenza, etica del lavoro e “l’assunzione di responsabilità” richiesta dal proprio ruolo nella collettività.
Le basi ci sono: in Italia il numero di volontari è stimato in 6,63 milioni di persone (un italiano su otto, con un tasso del 12,6 per cento); 4,14 milioni in maniera organizzata (7,9 per cento) e tre milioni a titolo individuale (5,8 per cento). Ma il senso civico deve diventare “un dovere”. Altrimenti non ce la facciamo.