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Verità scomoda: l’Italia non riparte. Tre scenari per i prossimi dieci anni
L’andamento dell’economia italiana sembra non cambiare mai. Purtroppo per il lettore (ma anche per chi scrive), articoli come questo sembrano ripetersi uguali, ad infinitum.
Gli ultimi dati confermano una sostanziale stagnazione. La recessione è ormai alle spalle, ma l’economia non tira. Tra dicembre 2016 e febbraio 2017 la produzione industriale è cresciuta solo dello 0,7 per cento rispetto al trimestre precedente; il commercio estero – aiutato dal miglioramento della congiuntura internazionale – ha dimostrato maggiore dinamicità: le esportazioni, spinte dalla domanda dei paesi extra-europei, sono cresciute del 3,7 per cento, le importazioni del 5,6 per cento. In aprile 2017, i prezzi al consumo sono aumentati dell’1,8 per cento rispetto ad aprile 2016 (a marzo erano cresciuti dell’1,4 per cento) e l’indice del clima di fiducia dei consumatori è calato (al 107,5 dal 107,6 di marzo) mentre quello delle imprese ha registrato un incremento (da 105,1 a 107,4), raggiungendo il valore più elevato da ottobre 2007.
I problemi sono i soliti: rigidità strutturali … L’invecchiamento della popolazione ha ridotto i consumi e aumentato i risparmi. Alti livelli di debito – pubblico e privato – limitano gli investimenti e la crescita della produttività. Innovazione e competitività sono al di sotto della media europea. Il prodotto interno lordo (Pil) pro capite è fermo su valori di fine anni 90.
… la crescita è bassa … In assenza di riforme, il potenziale si è ridotto: negli ultimi 20 anni, il Pil è cresciuto a una media annuale dello 0,46 per cento. Negli ultimi cinque anni, la media è scesa allo -0,60 per cento. Nel 2017, la crescita è prevista allo 0,8 per cento (il governo Gentiloni attende un poco realistico 1,1) e nel quinquennio 2017-21 è stimata tra lo 0,9 e l’1,0 per cento.
… la disoccupazione è cronica … La disoccupazione mantiene i salari fermi e i redditi reali stagnanti, indebolendo la domanda aggregata. Nel primo trimestre 2017, l’occupazione è cresciuta di un mero 0,2 per cento (35 mila occupati in più) rispetto all’ultimo trimestre del 2016. A marzo 2017, il tasso di disoccupazione è salito al 11,7 per cento, e rimane al di sopra dei livelli pre-crisi e alla media dell’area euro (9,5 per cento).
… il debito pubblico continua a crescere … Il rapporto tra deficit e Pil è previsto al 2,3 per cento nel 2017 (2,4 nel 2016). Nel 2016, il debito pubblico è cresciuto a 2.229,4 miliardi di euro e il rapporto tra debito e Pil ha raggiunto il record storico di 132,6 per cento, ben 11,2 per cento al di sopra dell’obiettivo previsto nel “Programma di Stabilità” del 2013. Dopo la Grecia (176,9), è il secondo più alto della zona euro. I 20 miliardi stanziati nel dicembre 2016 per le “ricapitalizzazioni precauzionali delle banche in crisi” graveranno ulteriormente sulle finanze pubbliche e il rapporto tra debito e Pil crescerà ancora: nel 2017 toccherà il 132,8 per cento, per stabilizzarsi nel 2020 intorno a quota 131,5 (il governo Gentiloni si attende un poco realistico 125,7).
… il sistema bancario rimane in grave difficoltà. I rischi per l’economia e per le finanze pubbliche sono accresciuti dalla debolezza delle banche. Per i necessari aumenti di capitale servono 40 miliardi di euro (equivalenti al 2,5 per cento del Pil). L’intero settore va ricostruito: l’attività di intermediazione è letargica e anche le aziende più produttive sono a corto di credito. Di conseguenza, la redditività delle banche è bassa. Per evitare ulteriori interventi pubblici, i bilanci degli istituti in crisi vanno messi in ordine – risolvendo le sofferenze. Invece, negli ultimi quattro mesi i crediti deteriorati sono cresciuti da 199 a 203 miliardi.
Secondo le agenzie di rating, le prospettive macroeconomiche e di finanza pubblica sono preoccupanti … In gennaio 2017, Dbrs ha declassato il rating del debito sovrano italiano da ‘A’ a ‘BBB’, con outlook “stabile”. In febbraio 2017, Moody’s ha mantenuto il rating a ‘Baa2’ (due gradini sopra la soglia “livello speculativo/junk”), con outlook “negativo”. In aprile, Fitch ha declassato il rating sovrano da ‘BBB+’ a ‘BBB’ (due gradini sopra la soglia “livello speculativo/junk”), con outlook “stabile”. In maggio, S&P ha confermato il rating a BBB- (un gradino sopra la soglia “livello speculativo/junk”), con outlook “stabile”.
… i rischi politici aumentano … Con elezioni attese nel 2018, il Governo Gentiloni è percepito come provvisorio e troppo debole per attuare riforme efficaci. I partiti populisti ed euroscettici sono in ascesa: il Movimento 5 Stelle (M5S) – con il 27 per cento delle preferenze e addirittura il 40 tra chi ha meno di 45 anni – è la seconda forza politica.
… l’aiuto della BCE non è eterno … La politica monetaria ultra-accomodante della Bce e il quantitative easing (QE) hanno abbassato sia i tassi di finanziamento che i rendimenti medi sulle nuove emissioni di debito sovrano. Tuttavia, il Qe (che al momento ammonta a 60 miliardi di euro al mese, fino a fine 2017) non durerà oltre il 2018 e il mandato di Draghi scadrà il 31 ottobre 2019. Dovesse la politica monetaria diventare meno accomodante o addirittura restrittiva, la stabilità finanziaria del Paese potrebbe essere a rischio.
… e l’economia è esposta a potenziali shock avversi. A metà aprile 2017, il differenziale BTp-Bund (spread) ha toccato i 210.3 punti base, il livello massimo degli ultimi tre anni. Persa l’ultima ‘A’ con la decisione di Dbrs (vedi sopra), le banche italiane rischiano di ottenere meno finanziamenti dalla Banca centrale europea (Bce): nel decidere quanto credito erogare, la Bce tiene infatti conto della rischiosità delle garanzie prestate (normalmente titoli di stato), e la misura con il rating più alto tra quelli delle quattro principali agenzie. Infine, l’Italia può diventare un bersaglio durante la campagna elettorale tedesca e i suoi mercati sono a rischio di attacco speculativo nell’estate del 2019, quando si esaurirà la “Draghi put”.
La stagnazione può durare altri cinque anni. L’economia si è giapponesizzata. I sintomi ci sono tutti: crescita al di sotto del potenziale, tassi d’interesse reali vicini allo zero, inflazione bassa con tendenze deflazionarie, zombie banks. Lo status quo, il circolo vizioso “stagnazione prolungata, governo debole, mancanza di riforme, alto debito”, sembra senza fine e può durare un altro lustro.
Cosa succederà nella prossima decade? Uno sguardo strategico ai prossimi dieci anni lascia pochi dubbi: la situazione è destinata a cambiare. Nel lungo periodo, gli scenari possibili sembrano essere tre:
Scenario 1 (probabilità: 75 percento) – Status quo e accettazione di fatto della leadership tedesca. In assenza di riforme, l’uscita dall’euro verrà evitata grazie a una progressiva condivisione dei rischi a livello Europeo, attraverso meccanismi quali (o simili a) gli Eurobonds, l’unione bancaria e lo schema unico di assicurazione dei depositi. Il processo sarà lento e implicito: la Germania accetterà la mutualizzazione senza dichiararlo esplicitamente, e i soldi tedeschi arriveranno in cambio di un rafforzamento della leadership di Berlino.
Scenario 2 (15 per cento) – Riforma dell’Unione Europea e attuazione di riforme incisive in Italia. In un’Europa ripensata, il governo potrebbe – grazie a riforme strutturali di cui l’agenda è nota – migliorare la competitività a lungo termine e ad attrarre investimenti, aumentando la crescita potenziale.
Scenario 3 (10 per cento) – Uscita dall’euro. Il fragile contesto politico, la mancanza di riforme e l’impossibilità stabilizzare il rapporto tra debito e Pil possono portare al potere istanze populiste ed euroscettiche e tenere lontani gli investitori. L’uscita dall’euro comporterebbe con ogni probabilità un default e la ristrutturazione del debito pubblico, con conseguente collasso del sistema bancario.
Il futuro si può cambiare. Se non ora, quando? L’inerzia è forte: i prossimi anni saranno caratterizzati da rischi politici elevati e crescita economica moderata. L’esito più probabile è lo “scenario 1” di cui sopra. Ma lo “scenario 2” non è impossibile: eventi quali Brexit e l’elezione di Trump possono creare un “sentiment d’urgence” e divenire opportunità per: 1) ripensare il progetto europeo, riformandone e rafforzandone le istituzioni; 2) cambiare i Trattati (anche se ogni cambio richiede l’unanimità, la ratifica nei Parlamenti nazionali e – in alcuni Paesi – un referendum); e 3) creare le condizioni per investire attuando il piano Juncker. Se Macron riuscisse a non fare la fine di Renzi, il populismo verrà contenuto. In presenza di tali fattori di crescita esterni, l’economia italiana potrebbe svilupparne di interni, attraverso riforme strutturali efficaci.