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Trump, la Cina, i posti di lavoro distrutti. La rilettura che non ti aspetti
Ora che il protezionismo è tornato di moda, dibattendosi a lungo sui mali provocati dalla globalizzazione, e gli Usa hanno eletto un presidente che ha fatto dello stigma verso i suoi creditori commerciali – Cina in testa – la cifra del suo successo, vale la pena spendere qualche minuto per ascoltare, sul sito della Fed di S. Louis, il podcast con Max Dvornik, economista ricercatore della banca.
Dvornik un paio di anni fa ha pubblicato, insieme con altri, un paper che si intitolava Trade and labor market dynamics, assai utile a ricordare che c’è sempre un rovescio della medaglia nelle storie che sono diventate popolari. Una di queste – popolarissima – è che la Cina avrebbe distrutto milioni di posti di lavoro nel mondo, particolarmente negli Stati Uniti, finendo così col generare quella sorta di rivolta sociale, che ormai viene etichettata col nome di populismo e che ha condotto all’elezione di Trump, oltre che alla Brexit (e chissà a cos’altro condurrà quest’anno).
Ora, se si accetta l’idea che l’ingresso della Cina nel mercato internazionale abbia distrutto posti di lavoro nei paesi avanzati si dovrebbe accettare anche quella, mostrata nello studio, che al tempo stesso l’arrivo della Cina ne abbia creati, e che al tempo stesso la diminuzione dei prezzi – la Grande Deflazione esportata dalla Cina – abbia condotto a un aumento del potere d’acquisto per i consumatori che gli autori del paper, riferendosi al mercato americano, calcolano in 260 dollari annui a persona, permanentemente.
Riportare questa ricerca, che non ha pretesa di verità ma di semplice testimonianza, spero serva a guardare al problema del commercio con i cinesi con sguardo più equilibrato, senza nascondere le grandi tensioni sociali che sono state determinate da questo cambiamento storico dell’economia internazionale, ma neanche i vantaggi che le popolazioni ne hanno tratto.
Qualche numero servirà a contestualizzare meglio. La ricerca è concentrata negli anni fra il 2000 e il 2007, ossia dalla vigilia dell’ingresso della Cina nel WTO, che data 2001, al momento del picco pre crisi. Gli autori hanno costruito un modello calibrato su 50 stati americani e 22 settori, dal quale hanno tratto la stima che il trade shock provocato dall’ingresso massiccio dell’export cinese nei mercati statunitensi, più che raddoppiato nel periodo considerato, abbia provocato la perdita di 800 mila posti di lavoro nella manifattura. Ma questo, appunto è solo un lato della medaglia. Il modello serve anche ad osservare l’altro. “Abbiamo contato la distribuzione dei vincitori e dei perdenti lungo i settori e le regioni Usa causate dall’aumento di competitività cinese”, spiegano gli autori. E sottolineano di aver rilevato che “i lavoratori si sono riallocati nel settore dei servizi poiché questo settore ha beneficiato dall’accesso a beni intermedi più economici provenienti dalla Cina”.
Questo grafico riepiloga alcune delle conclusioni cui sono giunti gli autori, secondo cui l’aumentata competizione cinese avrebbe ridotto il tasso di disoccupazione permanentemente di 0,03 punti percentuali grazie soprattutto al ruolo svolto dai beni intermedi (quelli utilizzati nella produzione), che, diminuendo di prezzo, hanno generato un miglioramento dei costi per alcune imprese americane e un aumento dell’occupazione. Addirittura “l’aumento dell’occupazione in questi settori più che compensa il calo dell’occupazione manifatturiera generando un declino del tasso di disoccupazione”. Anche se questo risultato non vale per tutti gli stati esaminati.
Se guardiamo ai dati settoriali, quest’altro grafico mostra come l’impatto dell’aumentato import dalla Cina non sia stato uniforme e come alcuni abbiano sofferto più di altri, mentre qualcuno ci ha pure guadagnato. Il fatto rilevante è che “l’attività economica degli Usa non è distribuita uniformemente nello spazio” e questo, unito alla circostanza della variegata esposizione settoriale all’economia cinese, genera una notevole variabilità degli impatti occupazionali nelle varie località statunitensi. La California, ad esempio, è quella che ha pagato il prezzo più alto, visto che pesa il 20% del totale degli occupati nel settore computer, molto penalizzato dalla concorrenza cinese. Ma al tempo stesso la California ha tratto vantaggi notevoli dal fatto che ha un notevole accesso ai beni a basso costo prodotti in Cina.
Gli esempi potrebbero continuare, ma il significato è chiaro. In un’economia integrata e complessa come quella degli Usa si rischia di commettere errori di giudizio semplificando troppo. Lo studio della Fed può essere sicuramente contestato – qui trovate un altro studio che arriva a conclusioni opposte – ma rimane un ottimo spunto su cui riflettere. Purché se ne abbia voglia.
Twitter @maitre_a_panZer