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Il mondo paga il conto del crollo degli investimenti cinesi
Poco osservato nelle cronache quotidiane, ma non per questo meno interessante, il drastico calo degli investimenti cinesi sembra una di quelle informazioni che ci si può permettere di trascurare per la semplice ragione che non ci riguardano. Ma purtroppo non è così. La dimensione della Cina e la sua crescente influenza sistemica trasformano ogni avvenimento di una qualche importanza per questo paese in una cosa che ci riguarda tutti. Un po’ come accade negli Stati Uniti. Specie quando si parla di investimenti, che è notorio siano stati ed tuttora sono la variabile di maggior peso sul prodotto interno lordo del paese asiatico. Il fatto puro e semplice, così come ce lo racconta la Banca Mondiale (World Bank, WB) nel suo ultimo Global economic prospects è che “la crescita degli investimenti in Cina si è dimezzata dal 2012, seguendo il riequilibrio verso una crescita più sostenibile”. E se ricordate il cielo sopra Pechino saprete già che significa.
Il dato interessante è che alla graduale discesa degli investimenti pubblici, che seguivano le linee di policy stabilite dal governo, si è associata una drammatica caduta degli investimenti privati, come si può osservare da questo grafico, che mostra come in qualche modo tale crollo sia stato compensato dalla ripresa degli investimenti delle compagnie statali, quindi di nuovo del governo. Una tendenza che non è sfuggita agli osservatori del PIIE (Peterson Institute) che ne hanno trattato in un post di un paio di settimane fa. Il succo del problema è chiaro: è molto difficile cambiare modello di sviluppo, specie quando c’è un player di gran peso come lo stato.
Il problema è che le difficoltà della Cina che, come scrive la WB, “è profondamente integrata nell’economia globale” finiscono col trasferirsi anche all’estero. Basta ricordare che gli investimenti cinesi rappresentano un quinto degli investimenti globali e che pesano il 42% della ripresa degli investimenti globali dopo la crisi negli anni 2010-15. Detto in altri termini, la ripresa zoppicante degli investimenti globali, che molti giudicano essere la causa principale della crescita anemica di questi anni, sarebbe stata ancor più claudicante se la Cina non avesse raggiunto una quota di investimenti sul Pil vicina al 50%.
Ne consegue che il rallentare degli investimenti cinesi, almeno finché la domanda interna di questo paese non sarà in grado di compensarli, grava pesantemente sugli investimenti globali, appesantendo ancor di più le prospettive di crescita di tutti. Per dirla con le parole della WB, la Cina “genera notevoli effetti di contagio sugli altri paesi emergenti e in via di sviluppo”. Ma anche sugli avanzati, evidentemente, basta ricordare che l’anno scorso il 40% degli investimenti diretti cinesi sono arrivati in Europa e Stati Uniti.
I calcoli svolti dalla Banca Mondiale ci consentono anche di stimare questi effetti. Un declino dell’1% degli investimenti annuale in Cina provoca un calo della crescita dello 0,3% nei paesi produttori di commodity. Si stima che in media il calo di investimenti cinesi registrato dal 2012 in poi abbia diminuito il prodotto complessivamente dello 0,8%, aggiungendo complicazioni ad economie già in affanno.
Dulcis in fundo rimane la considerazione che se una moderazione degli investimenti era necessaria per innescare un processo di crescita bilanciata, il calo degli investimenti privati cinesi “solleva preoccupazioni sulle prospettive di crescita” del paese, che peraltro “è già sotto pressione a causa della diminuzione della popolazione in età lavorativa e il rallentamento dei fattori totali della produzione”. La crescita potenziale cinese è prevista passi dal 10,6% del 2010 al 6% del 2020. E tutto questo va armonizzato in un contesto di aumento crescente del debito, sia pubblico che privato. La ricetta della WB è di stimolare gli investimenti privati facilitando l’accesso al mercato alle imprese non statali. Ma siamo in Cina. E questo la WB forse lo dimentica.
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