categoria: Res Publica
Il declino italiano in prospettiva storica: la crisi del ‘600 e la situazione attuale
Il passaggio nel nuovo anno rappresenta sempre un’occasione di riflessione, piccola o grande che sia, anche sullo stato di salute del nostro Paese. Si passa spesso da timidi ottimismi ai più marcati catastrofismi, senza troppe vie di mezzo. Nonostante la fase recessiva della crisi del 2008 sia alle spalle, resta diffusa la sensazione che le cose possano anche peggiorare negli anni seguenti, andando ad aggravare quella fase di declino del nostro sistema avviatasi prima della suddetta crisi e dell’entrata in vigore della moneta unica europea.
Si è soliti leggere che l’Italia sia poco competitiva, affermazione che corrisponde al vero. Secondo l’indice di competitività dell’ultimo Global Competitiveness Report del World Economic Forum, occupiamo il 44° posto nel ranking, perdendo una piazza rispetto alla rilevazione precedente. Sono ben diciassette i Membri dell’Unione Europea davanti a noi nella classifica. Tra i maggiori problemi del sistema si evidenziano la pressione fiscale e l’inefficiente burocrazia correlata alla stessa, le cattive performance del nostro sistema pubblico e, soprattutto, del nostro sistema giudiziario. Su 138 Paesi, registriamo il 103° posto per quanto concerne le istituzioni, il 119° per l’efficienza del mercato del lavoro, il 98° come ambiente macroeconomico e il 122° per lo sviluppo dei mercati finanziari (tutto ovviamente mediato e compensato da alcune piazze alte, come il 23° posto in salute e istruzione primaria ad esempio).
Appare evidente che siamo imbrigliati in una serie di problemi strutturali di lunga durata che, purtroppo, richiederebbero uno sforzo riformatore profondo e che, in ogni caso, non produrrebbe risultati immediati. Leggerete e sentirete (ancor di più nel 2017, anno di campagna elettorale e forse di elezioni politiche) chi propinerà soluzioni semplici, risolutive di ogni crisi, come il cercare di competere nel mondo globalizzato “inseguendo” il lavoro a basso-costo dei Paesi sotto-sviluppati o ritornando al vecchio modello di sviluppo fatto di inflazione e svalutazione, con annesso auspicio di abbandono dell’Euro. Soluzioni che, come scrive Emanuele Felice, «Corrispondono a una politica di sopravvivenza, di breve periodo; si adattano abbastanza bene agli interessi di imprenditori poco propensi a investire nell’innovazione e a quelli altrettanto consolidati nell’apparato politico-amministrativo. Tutt’al più possono aiutare a superare la fase più dura della crisi (…), congiunturale, ma di certo non risolvono il problema strutturale: ovvero il declino di lungo periodo dell’economia italiana, il quale precede la crisi del 2008»[1].
Non è facile comparare epoche diverse distanziate da secoli di storia nei quali l’umanità ha vissuto una serie di rivoluzioni di proporzioni gigantesche, ma è altrettanto difficile non scorgere delle analogie con un’altra fase di declino della nostra storia: quella del diciassettesimo secolo, dopo i fasti del 1400 e il rallentamento del secolo seguente.
Secondo la ricostruzione di Carlo Maria Cipolla[2] «Nel corso del Cinquecento e soprattutto nella seconda metà del secolo altri Paesi e in particolare i Paesi Bassi settentrionali e l’Inghilterra svilupparono le loro attività manifatturiere e armatoriali su scala e con metodi nuovi. I loro prodotti si affermarono presto sul mercato internazionale». Grazie a una favorevole congiuntura, l’Italia riuscì a mascherare i suoi problemi, benché stesse slittando «(…) da una posizione di avanguardia a una posizione di marginalità».
I prodotti italiani non riuscivano più ad essere competitivi, né sui mercati internazionali né su quelli domestici. I prezzi degli stessi risultavano più elevati, non solo per ragioni di maggiore qualità, ma anche per altre cause:
«a) l’eccessivo controllo delle corporazioni obbligò i manifatturieri italiani a continuare con metodi di produzione e di organizzazione aziendali superati dai tempi; non vi è dubbio che le corporazioni (…) rappresentarono formidabili elementi di resistenza contro le possibili innovazioni sia tecnologiche sia soprattutto organizzative;
b) la pressione fiscale negli Stati italiani sembra essere stata troppo alta e mal congegnata;
c) il costo del lavoro sembra essere stato troppo elevato in Italia rispetto ai livelli salariali dei paesi concorrenti(…)».
Si tratta di cause che potrebbero essere tranquillamente utilizzate anche per descrivere alcuni ritardi di competitività dell’Italia attuale. Inoltre, «(…) la produttività del lavoro italiano era addirittura inferiore a quella del lavoro inglese, olandese o francese». Anche qui l’analogia è evidente.
L’Italia preunitaria si avviava dunque ad essere un paese sottosviluppato, che verrà tagliato fuori dalla prima rivoluzione industriale. Il declino riguardò tutti i mini-Stati che governavano la penisola, incluso il Regno di Napoli che in ogni caso «(…) non poteva deindustrializzarsi per la semplice ragione che non era industrializzato in partenza».
Naturalmente, si legga il tutto con la dovuta misura e con i necessari accorgimenti. Parliamo di epoche contraddistinte da guerre e pestilenze a noi, per fortuna, sconosciute, ma la riflessione può comunque servire per capire che una volta innescatosi il declino, non è facile risalire la china. Ad esempio, tornando a quanto detto sopra, l’Italia dovette aspettare la fine del diciannovesimo secolo per ridurre il gap accumulato nei tre secoli precedenti. Scrive Toniolo che «Verso la fine degli anni Novanta dell’Ottocento il PIL pro capite italiano era sceso al 38% di quello della Gran Bretagna (dal 45% nel 1870); nel 1913 raggiunse quasi il 54%. Una forte accelerazione nella crescita si ebbe dalla fine degli anni Novanta in poi: la componente ciclica spiega circa un quinto di questa crescita; il resto è dovuto a un mutamento del trend. Per la prima volta dal XVII secolo, invece di restare indietro, la penisola fece un balzo in avanti e ridusse il divario di reddito con il paese economicamente più avanzato del tempo».
Discutere delle cause che portarono alla prima industrializzazione italiana non è riassumibile in poche righe, ma un buon punto di partenza può essere il capitolo curato da Harold James e Kevin O’Rourke in “L’Italia e l’economia mondiale dall’Unità a oggi”. Ma resta molto dubbio il nesso causale tra le politiche dei primi governi post-unificazione e la crescita che ne derivò.
Provando a tirare qualche somma e considerato il lunghissimo lasso di tempo che impiegò l’Italia per ritornare nel club dei Paesi più avanzati d’Europa, sembrerebbe delinearsi uno scenario futuro abbastanza pessimistico, ma non bisogna disperare. Difatti, rispetto alla storia richiamata brevemente, siamo in un’epoca dove i cambiamenti economici e sociali possono essere molto più rapidi rispetto al passato. Ma chi guiderà l’Italia negli anni e nei decenni che verranno dovrà tenere a mente che per creare condizioni favorevoli alla crescita non basterà di certo rattoppare buchi qua e là, né tantomeno promettere ricette risolutive inutili o dannose.
Perché ritornare alla grandezza perduta è difficile, ma per peggiorare lo status quo basterebbe pochissimo.
Twitter @frabruno88
[1] Cit. da Felice E., “Ascesa e declino. Storia economica d’Italia”, Il Mulino 2015, Cap. VII.
[2] Cipolla C. M., “Storia Economica dell’Europa pre-industriale”, Il Mulino 1974, Cap VII.