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Mediaset-Vivendi: la vera riflessione è sul capitalismo italiano
La battaglia societaria e legale tra Mediaset e Vivendi è ancora agli inizi, ma sta facendo molto rumore sulla stampa italiana ed estera in virtù delle grosse cifre in ballo e della potenza mediatica di tutto ciò che concerne Silvio Berlusconi.
La vicenda può essere analizzata sotto diversi profili, anche penali probabilmente, ma al di là della cronaca offre altresì l’occasione per riflettere sulle reazioni lette ed ascoltate nelle ultime settimane e, in generale, sullo stato di salute del capitalismo italiano.
La difesa dell’italianità
Una delle reazioni più ricorrenti riguarda le acquisizioni societarie compiute da multinazionali straniere nel nostro Paese e l’accezione negativa dell’immaginario collettivo inerente alle stesse. Anche la politica tende a reagire negativamente, come dimostra ad esempio lo scambio di opinioni sul Sole 24 Ore tra il professor Zingales e il ministro Calenda.
Ma è tutto veramente negativo per l’Italia?
Un report di novembre 2016 dell’ISTAT, basato su dati del 2014, ci offre una panoramica della situazione. Trattasi di 13.569 imprese a controllo estero (in crescita rispetto al 2013), circa la metà delle controllate italiane all’estero (sì, le imprese italiane controllano all’estero più di quanto siano controllate dall’estero!), valgono 524 miliardi di fatturato e impiegano 1,2 milioni di dipendenti. Nel confronto tra grandi imprese, le imprese a controllo estero sono maggiormente produttive (più del 20%), più profittevoli e spendono molto in Ricerca e Sviluppo (3 miliardi di euro). Le stesse giocano anche un ruolo importante sulle esportazioni, contribuendo per un quarto del totale.
Il report analizza comunque una crescita anche delle multinazionali italiane. Oltre alla crescita numerica, negli due anni infatti il 62,4% delle principali voci dell’industria italiana e il 45,5% del settore dei servizi hanno realizzato o programmato investimenti per acquisire il controllo di società estere.
Anche un recente working paper della Banca d’Italia offre degli spunti interessanti sulla proprietà in mani straniere di imprese italiane. I dati utilizzati per la ricerca provengono dal registro delle imprese (1,12 milioni di società di capitali non quotate) e dal database di Cerved (965.000 bilanci nel 2010), mentre il periodo analizzato è quello che va dal 2007 al 2013. I risultati dimostrano che le imprese italiane migliorano le loro performance a seguito di Foreign Direct Investments (FDI). Per quanto concerne il premio che conferisce il controllo estero (Foreign Ownership Premium o FOP), lo stesso è presente in tutte le caratteristiche considerate per verificare la performance di un’azienda (dimensioni, redditività e salute finanziaria) e i suoi effetti positivi crescono con il passare degli anni, poiché gli apporti di know-how ed i cambiamenti organizzativi e manageriali non sono immediati. I miglioramenti sono statisticamente significativi per l’industria dei servizi, meno per il settore manifatturiero, già più allineato di per sé agli standard internazionali. Naturalmente, il FOP può aver luogo solo nelle ipotesi di vere acquisizioni, mentre non si verifica alcun miglioramento di performance nei casi di operazioni dettate da mere finalità fiscali o speculative.
Sempre sul tema della proprietà straniera, Onida e Crinò, analizzando il caso della Lombardia (dati di 13.500 imprese, periodo 2000-2005), hanno ottenuto dei risultati che confermano l’ipotesi che le multinazionali estere siano in genere dotate di migliori tecniche produttive, migliore produttività, salari più alti e di una struttura finanziaria più solida rispetto alle imprese italiane, sia nel settore manifatturiero sia in quello dei servizi. In merito al “premio salariale” conferito dal cambio di controllo in favore di multinazionali estere, anche il caso del Giappone dimostrerebbe un premio salariale maggiore del 29% in queste ultime rispetto alle aziende domestiche.
Riflessioni sul ruolo della politica
Come dimostrano i dati, il passaggio di controllo non è di per sé negativo, ma può invece accrescere il patrimonio della cultura aziendale nel nostro Paese. Più che la bandiera dei proprietari, sarebbero dunque altri i parametri da osservare nei casi di trattative di acquisizioni, come i piani industriali, gli investimenti in programma, la prospettiva di lungo termine dell’operazione, le ripercussioni sui lavoratori.
A prescindere dalla vicenda particolare che dà il titolo a questo pezzo – che seguirà il suo corso – vi è da chiedersi quale sia o quale potrebbe essere il ruolo della politica in queste situazioni. La risposta dovrebbe essere scontata: nessun ruolo diretto. Esistono istituzioni indipendenti chiamate, se del caso, ad intervenire (Consob, AGCM, AGCOM) ed esiste la magistratura ordinaria per tutto il resto.
Tuttavia, come sappiamo, la realtà è un pochino diversa. I destini dei “national champions” interessano, come tanti altri Paesi, anche l’Italia, che fa un po’ fatica ad allontanarsi da un’idea di capitalismo politico o di relazione. La classe dirigente teme i cambi di proprietà e il cambio degli interlocutori, che potrebbero essere avulsi ad alcuni meccanismi propriamente italiani. Capitalismo politico che rappresenta il volto, meno dignitoso, del capitalismo familiare tipicamente italiano che ha avuto tanti meriti (e pari demeriti), ma soffre di inevitabili problemi legati alle successioni. Su quest’ultimo aspetto, in un working paper di Amatori, Bugamelli e Colli che richiama la storia del capitalismo italiano nei primi 150 anni dall’unità, si ricorda che può rappresentare un limite la circostanza che il potere di una grande impresa sia concentrato nelle mani di un unico imprenditore, seppur illuminato, riportando l’esempio di Adriano Olivetti che portò via con sé nell’Aldilà alcuni progetti futuristici non recepiti dai successori. Anche Beniamino Piccone (in due recenti post: 1 e 2) evidenzia la necessità per le imprese italiane di uscire dalla logica del capitalismo familiare, distinguendo tra proprietà e management, e di non aver timore della strada della quotazione in borsa.
In generale, lo stato di salute del capitalismo italiano non è eccellente. I dati di Mediobanca evidenziano che, per numero di dipendenti, troviamo ancora tante imprese pubbliche (o a controllo pubblico) ai vertici, come Poste Italiane, Eni o Finmeccanica, aziende ex-pubbliche come Telecom, ed alcuni marchi storici come Fiat (galassia Exor, trasferitasi in Olanda) e Pirelli. Nella classifica Fortune Global 500 sono solo nove le aziende italiane presenti, tra cui banche e assicurazioni. Ciò dimostra che il nostro sistema non riesce a generare nuovi soggetti in grado di competere sui mercati internazionali, essendo rimasto ancorato a un capitalismo che si affidava molto a sussidi, svalutazioni e relazioni politiche, un sistema reso pressoché nullo e sopravanzato dalla globalizzazione.
Ecco, il ruolo della politica dovrebbe essere quello di ricreare le condizioni favorevoli affinché le imprese italiane crescano, prosperino e proseguano nell’opera di internazionalizzazione. Non si tratta di una sfida semplice, perché coinvolge il mondo dell’istruzione (il buon management viene spesso da lì), del credito, della finanza etc., ed essendo una strategia di lungo periodo collide con la visione di breve periodo della politica. Nel frattempo, però, di certo non conviene mostrarsi insofferenti nei riguardi degli investimenti esteri, lasciando agli organi competenti le verifiche sul rispetto delle leggi.
Twitter @frabruno88