categoria: Res Publica
Per un voto consapevole: analisi economica della riforma costituzionale
Si parla da mesi degli effetti economici della riforma costituzionale, navigando tra visioni catastrofistiche o miracolose. L’oggetto del referendum è ampio e complesso, ma si può tentare di radiografare alcuni vantaggi e svantaggi del nuovo testo – utilizzando i concetti dell’analisi economica del diritto [1] e della Public Choice – con riferimento ai due elementi cardine della riforma: il superamento del bicameralismo paritario e la revisione del Titolo V.
Il superamento del bicameralismo paritario
Nonostante le numerose eccezioni che prevederebbe il nuovo articolo 70 della Costituzione e il mantenimento del Senato con composizione e funzioni profondamente diverse da quelle attuali, prenderò in considerazione il nuovo assetto disegnato dalla riforma – solo per comodità – come monocamerale, per evidenziarne le differenze teoriche con il bicameralismo vigente.
– Costi decisionali e costi esterni della decisione
Secondo i padri fondatori della Public Choice Buchanan and Tullock (1962), i “costi decisionali” aumentano all’aumentare del numero di persone che devono compiere una determinata scelta. L’esempio scolastico di costi decisionali praticamente nulli è quello della dittatura. Di contro, i costi esterni della decisione ricadono su tutti coloro che non hanno potuto contribuire all’approvazione della decisione stessa: sono massimi nel caso del dittatore e praticamente nulli in caso di decisione unanime.
Buchanan e Tullock sostengono che il bicameralismo comporta costi decisionali chiaramente più alti e non avrebbe alcun senso economico, se non nel caso di una base di rappresentanza diversa tra le due camere in grado di ridurre i costi esterni. Dall’altro lato però, il sistema monocamerale comporta costi esterni elevati (scenario molto possibile in caso di vittoria dei “Sì” e di rigetto sistematico dei pareri legislativi forniti dal nuovo Senato). Per alleviare il problema gli autori suggeriscono maggioranze super qualificate per il sistema monocamerale (fino ai 3/4), non previste dalla riforma proprio per puntare alla riduzione dei costi decisionali anche a scapito dei costi esterni.
– Lobbying e corruzione
Levmore (1992) sostiene che un sistema bicamerale sarebbe in grado di porre un freno al potere di agenda del governo ed a tendenze di eccessiva produzione legislativa (rischio evidenziato anche in un commento di Tony Barber sul Financial Times), a differenza di quanto avviene in un sistema monocamerale. Sostiene inoltre che il bicameralismo sarebbe in grado di arginare meglio la corruzione. Sulla stessa scia anche Diermeier and Myerson (1999) sostengono che il bicameralismo sarebbe più adatto a limitare il potere delle lobby: maggiore la difficoltà di far approvare una legge, maggiore sarà il costo dell’attività di lobby.
Facchini e Testa concordano sul fatto che il bicameralismo possa rendere più problematica l’attività di lobbying, ma evidenziano altresì che i gruppi di pressione possano avere vita più comoda laddove il processo legislativo è farraginoso e facilmente ostacolabile rispetto ad una situazione dove la maggioranza è politicamente più forte (come dovrebbe essere in caso di vittoria dei “Sì”). Sostengono inoltre, riferendosi alla riforma Renzi-Boschi, che il mantenimento di alcune funzioni in capo al Senato – a differenza di un puro monocameralismo – possa salvaguardare gli interessi dei cittadini da possibili abusi della maggioranza, eliminando allo stesso tempo alcuni rischi di pressioni indebite esterne che attualmente si possono manifestare nelle procedure legislative aventi scadenze temporali prefissate (come nel caso dell’approvazione della legge di bilancio, affidata alla Camera dalla riforma costituzionale).
– Politiche fiscali e spesa pubblica
Capitolo spesa pubblica, anche qui le opinioni sono variegate. Secondo Heller (1997) e un suo studio condotto su diciassette Paesi industrializzati, un sistema bicamerale, avendo costi di decisione più alti, produrrebbe una maggiore spesa pubblica, in quanto richiederebbe più “compromessi” per superare i veti incrociati. Wehner (2006) però, contesta i risultati di Heller, ritenendo incerto l’impatto del sistema bicamerale sulla spesa pubblica.
Bradbury and Crain (2002) sostengono l’esatto contrario: le due camere sarebbero in grado di limitare le tendenze redistributive dei Governi (fatte per ragioni di consenso politico) e, di conseguenza, di contenere la spesa pubblica. Anche Plümper and Martin (2003) sostengono che il bicameralismo sarebbe correlato ad una minore spesa pubblica, come emerso da un loro studio effettuato su 83 Paesi per il periodo 1975-1997.
La riforma del Titolo V
Altro aspetto fondamentale della Costituzione modificata riguarderebbe il riordino delle competenze tra Stato e regioni, con l’eliminazione delle competenze concorrenti e l’introduzione di una clausola di supremazia in favore dello Stato centrale. Sembrerebbe un passo indietro del legislatore rispetto a un modello federalista, tanto in voga nei primi anni del nuovo millennio. A tal proposito, secondo Hayek (1939) la competizione tra governi può portare ad una migliore efficienza. Tanzi (2000) però avverte che un alto numero di stati (o di regioni nel nostro caso) possa comportare un mancato utilizzo delle economie di scala nella fornitura di beni pubblici. Inoltre, il federalismo può aumentare il rischio di moral hazard nei confronti del Governo, se quest’ultimo interviene sempre come una sorta di prestatore di ultima istanza (Wildasin 1997). Per limitare l’effetto di free riding da parte delle regioni, i partiti che governano a livello centrale dovrebbero controllare le maggioranze anche a livello locale, ma questo può capitare – per mere coincidenze – solo in determinati periodi storici. Sempre secondo Tanzi, i livelli di corruzione possono essere più alti negli stati federali in virtù di una più forte probabilità di regulatory capturing.
Spunti di riflessione per un voto cognitivo e consapevole
Gli spunti teorici di cui sopra vanno letti con una giusta dose di equilibrio e si possono utilizzare nella riflessione pre-voto. In caso di “Sì”, il processo decisionale dovrebbe essere più immediato (anche se per molti questo non rappresenta un bene), ma i costi esterni potrebbero aumentare, soprattutto in un ipotetico scenario dove non vi sia omogeneità tra la forze politiche di maggioranza alla Camera e quelle al Senato (che potrebbe fare ostruzionismo sulle materie dove mantiene una competenza paritaria).
Sulla modifica del Titolo V, l’assetto attuale ha sicuramente mostrato delle carenze che giustificano un cambiamento. Il passo indietro nei confronti del federalismo è un segnale dettato più dall’esperienza negativa dell’ultimo decennio piuttosto che da nozioni teoriche, ma sarebbe un passo indietro probabilmente irreversibile per molto tempo, con perdite in termini di accountability dei governanti e degli amministratori locali.
Tutte le altre questioni affrontate, dalla corruzione alle correlazioni con la spesa pubblica, non sembrano ancora avere una robustezza empirica sufficiente per tracciare delle linee guida. Non a caso, Stefan Voigt (si veda nota) sostiene nelle sue conclusioni che sono davvero poche le norme costituzionali che generano importanti conseguenze economiche. Gli studi accademici sopramenzionati rischiano di dover cedere il passo dinnanzi a considerazioni peculiari e storiche di ogni sistema (Acemoglu). E l’Italia, su corruzione e spesa pubblica ad esempio, è un case study non facilmente paragonabile ad altri sistemi.
Restano infine almeno due dubbi di fondo che superano la breve analisi ivi compiuta: a) l’incertezza su quale sarà la prossima legge elettorale che incombe sulla riduzione dei costi decisionali o sull’aumento dei costi esterni di cui sopra; b) le differenze tra le intenzioni del legislatore (oggetto della presente analisi) e il testo partorito dal Parlamento, frutto di compromessi e negoziazioni politiche, che meriterebbero un capitolo a parte di non minore importanza, anche per la complessità testuale di alcuni articoli determinanti.
Un voto difficile per chi vuole ragionare fuori dalla lotta delle fazioni politiche. Ma ci sono ancora due mesi di studio, sperando che gli indecisi preferiscano i libri agli slogan.
Twitter @frabruno88
[1] La maggior parte dei risultati degli studi riportati nell’articolo sono contenuti in due paper del Professor Stefan Voigt, “Positive Constitutional economics: A survey” (Public Choice – 1997) e “Positive Constitutional economics II – a survey of recent developments” (Public Choice – 2011).