categoria: Sistema solare
Vincitori e vinti nella guerra dello shale oil
In tempi di Brexit, banche sofferenti e altre catastrofi è finita in un cono d’ombra una delle rivoluzioni più notevoli dell’ultimo lustro, le cui conseguenze geopolitiche, e quindi implicitamente economiche, solo di tanto in tanto riemergono dalle cronache: quella dello shale oil.
Il capitolo più aggiornato l’ho trovato nello staff report del Fmi dedicato agli Usa, in una paginetta appena, titolata “Us shale oil and global spillover”. Ci si potrebbe chiedere perché mai la rivoluzione Usa dello shale dovrebbe generare effetti a livello globale. E per una volta la risposta è semplice: si tratta di una tecnologia che ha consentito al paese più potente del mondo – gli Stati Uniti – di raddoppiare la sua produzione di greggio in un quinquennio. Ciò è di per sé fonte di svariate perturbazioni, specie perché va a toccare interessi assai consolidati come quelli di Russia e Arabia Saudita, che sul petrolio fondano buona parte del loro successo economico.
Per avere un’idea di quanto lo shale abbia cambiato l’equilibrio geopolitico, basta osservare il grafico qui sotto. La linea rossa mostra che la produzione Usa per impianto si è pressoché quintuplicata dal 2010 in poi, flettendo dal 2015 a causa sostanzialmente del crollo delle quotazioni petrolifere, che molto si deve (anche se probabilmente non tutto) alle scelte dell’Opec e degli altri paesi produttori di non diminuire l’offerta di petrolio malgrado il collasso delle quotazioni.
Una scelta che diventa comprensibile se si segue il ragionamento del Fmi. Il Fondo, infatti, ha elaborato tre scenari, uno base, uno al ribasso e uno al rialzo, riferiti all’andamento della produttività per impianto. Quest’ultima è ovviamente collegata alle quotazioni del greggio, nel senso che un aumento tende a stimolarla e un calo a deprimerla.
Questa variabile è quella che fa la differenza. A seconda dello scenario, infatti, entro il 2020 la produzione totale statunitense potrebbe oscillare in un range compreso fra i 3,5 e 8,4 milioni di barili al giorno. Lo scenario base, che si colloca all’incirca a metà, osserva il Fmi, è coerente con le previsioni dell’EIA, l’Autorità Usa dell’Energia.
Cosa significa tutto questo nel Grande Gioco petrolifero? Il Fmi, utilizzando il modello econometrico del G20, ha stimato alcuni effetti. Nel caso si verifichi lo scenario al ribasso o al rialzo della produzione, gli effetti sul Pil mondiale sarebbero simmetrici per circa lo 0,4%. Quindi un aumento della produzione, facendo diminuire i prezzi, avrebbe questo effetto positivo e viceversa.
Più interessante osservare quest’altro grafico, dove si vede chi vince e chi perde in caso di uno scenario di crescita della produzione. Fra i vincitori ci sono l’India e la Corea del Sud, che sono grandi importatori e quindi hanno tutto da guadagnare da un calo delle quotazioni, per i quali il Pil potrebbe crescere fino a circa l’1% in più. Ma andrebbe bene anche per gli Usa, l’Argentina, il Brasile, la Cina, la Germania e il Giappone, che spunterebbero un tasso di crescita in linea con quello dell’economia globale. A conferma del vecchio detto che ciò che va bene per gli Usa va bene anche per il mondo. O almeno quasi tutto.
Già, perché l’exploit del petrolio shale made in Usa provoca anche parecchi danni, i maggiori dei quali all’Arabia Saudita, che potrebbe perdere quasi 3 punti di prodotto, seguita dalla Russia con circa due. In generale gli altri esportatori si stima possano soffrire il calo di circa un punto percentuale.
Letta così la rivoluzione dello shale oil ci dice un’altra cosa: che sul petrolio si sta combattendo una guerra silenziosa. La Russia, come ai tempi della guerra fredda, è il contendente degli Usa. Ma, a differenza del passato, si trova dalla parte dell’Arabia. Chissà se è un bene o un male.
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