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Mario Draghi, Carlo Cipolla e le tre priorità del Governo. Sta in noi
Nell’ultimo rapporto annuale della Banca centrale europea (BCE), il presidente Mario Draghi ha ribadito l’esigenza di completare l’unione monetaria: “Se vogliamo conseguire un’unione più solida, evitando di sovraccaricare la banca centrale, tali suggerimenti (si veda il rapporto dei cinque presidenti) si devono tradurre in azione”. E’ sempre più evidente che la banca centrale non può essere una panacea. Sono gli assetti istituzionali che devono essere migliorati. Inoltre spetta ai singoli Paesi mettere mano alle riforme strutturali.
Se andiamo a rileggerci un intervento di Draghi ad Ancona nel 2010, quando era governatore della Banca d’Italia, ci chiariamo le idee sulle necessità italiane “di struttura”: “Abbiamo ripetutamente richiamato l’attenzione sul più generale difetto, nel nostro paese, di social capability, il termine usato da Fuà (l’economista Giorgio Fuà, ndr) per indicare la mancanza di un quadro politico e giuridico, di un sistema di valori, di una mobilità sociale, di un genere d’istruzione, di una disponibilità di infrastrutture tali da favorire lo sviluppo economico moderno”.
La crisi ci ha colpito duramente. Ma non è una novità. Draghi prosegue:
“È già accaduto, in un lontano passato. All’inizio del Seicento, gli stati della penisola italiana erano ancora tra i più ricchi del pianeta, nonostante le guerre che avevano segnato il secolo precedente. Secondo le stime di Angus Maddison, pur controverse, il prodotto pro capite annuo, valutato ai prezzi internazionali del 1990, era pari a 1.100 dollari, un valore doppio della media mondiale, superato solo nei Paesi Bassi. “Tre generazioni più tardi – ha scritto Carlo M. Cipolla – l’Italia era un paese sottosviluppato, prevalentemente agricolo, importatore di manufatti ed esportare di prodotti agricoli, dominato da una casta di possenti proprietari agrari che avevano ricacciato in secondo piano gli operatori mercantili, manifatturieri e finanziari.
La stagnazione proseguì nei decenni successivi e nel 1820 il PIL pro capite era fermo al livello di due secoli prima. Quali le ragioni di questo “lungo gelo” dell’economia italiana? Vi erano fattori esterni, come il collasso dei principali mercati di sbocco dei prodotti italiani del tempo, ma per Cipolla le ragioni erano soprattutto interne: salari non coerenti con la produttività del lavoro, un elevato carico fiscale, un difetto di capacità imprenditoriale che impedì di cogliere i mutamenti nella domanda; “il potere e il conservatorismo caratteristici delle corporazioni in Italia bloccarono i necessari mutamenti tecnologici e di qualità che avrebbero potuto permettere alle aziende italiane di competere con la concorrenza straniera”.
I nostri problemi sono ancora quelli del Seicento. In audizione parlamentare il vice direttore generale della Banca d’Italia del 18 aprile Luigi Signorini ha espresso questa valutazione sul Documento di Economia e finanza 2016 (DEF): “Lo scenario non può dirsi implausibile sulla base dell’attuale situazione congiunturale, ma resta il rischio di evoluzioni meno favorevoli”.
Se sulle riforme del mercato del lavoro il Governo ha lavorato bene, sono ancora limitati i progressi nell’apertura dei mercati alla concorrenza. Visto che è il Ministero per lo Sviluppo Economico che deve coordinare il provvedimento delle misure pro-concorrenza, l’impasse a seguito delle dimissioni (dovute) della ministra Guidi non aiuta.
Signorini insiste sulle riforme strutturali quando affronta il tema del Programma nazionale di riforma (il PNR), ossia degli interventi da adottare per il raggiungimento degli obiettivi nazionali di crescita, produttività, occupazione e sostenibilità delineati dalla Strategia “Europa 2020” : “Creare le condizioni di contesto più favorevoli all’attività economica è un obiettivo condivisibile e importante del piano di riforma. Le priorità del Governo sono l’innalzamento dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione pubblica, il miglioramento del funzionamento della giustizia civile, la realizzazione di un adeguato sistema di prevenzione e repressione della corruzione”.
Se non agiamo su questi fronti, la crescita del Pil sarà sempre stentata e, quando positiva, ben sotto quella degli altri Paesi europei e mondiali. E con la crescita che langue, il rapporto debito/Pil peggiora. Non a caso dal 2007 ad oggi il suddetto rapporto è aumentato di un terzo. Troppo comodo accusare Angela Merkel e la Germania di qualsivoglia nefandezza. Sta in noi, come soleva affermare il governatore Donato Menichella.
Twitter @beniapiccone