categoria: Vicolo corto
Diventeremo gli indiani d’Europa della ricerca? Forse, con stile italiano
L’Italia deve puntare ad attrarre i Centri R&S delle multinazionali perché da noi risulta conveniente fare ricerca: abbiamo un minor costo del lavoro qualificato rispetto a Paesi come USA e Regno Unito, alte competenze, una buona qualità della vita ed un forte attaccamento all’azienda.
Questa in sintesi la tesi di un interessante articolo di Francesco Inguscio su Corriere Imprese: “Vi spiego perché l’Italia sarà l’India d’Europa”. L’autore indica giustamente questa come una opportunità da sfruttare per attrarre investimenti esteri e trattenere i nostri migliori talenti.
Un articolo intelligente giocato sul filo della provocazione che però, non lo nascondo, mi ha anche un po’ turbato perché ha confermato quello che è da tempo un mio timore: essere un Paese che ambisce a caratterizzarsi per manodopera (seppur qualificata) a basso costo.
Il dato di fatto è inconfutabile: in Italia, checché se ne dica, possiamo vantare una grande capacità di fare ricerca. Purtroppo pagare poco i ricercatori temo non sia un vantaggio sostenibile sul lungo periodo. La fuga dei talenti è già in atto da tempo.
La sfida che si pone è quindi quella, nel breve, non solo di attrarre centri di ricerca stranieri ma anche di favorire la diffusione della conoscenza così creata in maniera tale da mettere in moto un processo virtuoso di nascita per gemmazione di nuove imprese o di contaminazione delle imprese esistenti.
Le startup che abbiamo il piacere di seguire in Studio sono per la quasi totalità spin off universitari: ingegneria, medicina, ecc. ed il motto, come indicato nell’articolo, è più o meno sempre lo stesso: “Comincia in Italia ma poi cresci all’estero”.
Fin qui tutto bene. Come ci hanno insegnato in questi anni, bisogna pensare in maniera globale e il mercato ormai è il mondo.
Purtroppo però nella nostra esperienza le motivazioni per cui le imprese si trasferiscono all’estero sono più scomode e meno romantiche di quelle che ci raccontiamo: gli stranieri (clienti, investitori, ecc) non si fidano del sistema Italia. Gli investitori non hanno nessuna voglia di infilarsi in un sistema giuridico (fiscale, civile e penale) lento, burocratico e soprattutto poco stabile e trasparente. Vogliono risposte chiare, qui da noi troppo spesso si riescono ad ottenere solo interpretazioni.
Parimenti i clienti esteri stimano la professionalità e la capacità italiana di fare impresa ma appaiono, in alcuni settori come la consulenza e l’IT, poco disposti a pagare un italiano come un inglese, pur a parità di servizio offerto.
Esattamente come noi usiamo gli indiani: sai che sono bravi ma servono anche a contenere i costi aziendali.
Un esempio? Qualche mese fa si è presentato da me un amico, ottimo e ben retribuito professionista, chiedendomi di costituire una società a Londra, pur lavorando lui in Italia. Si è affrettato immediatamente a rispondere al mio sguardo torvo. Mi ha rassicurato, non era vittima di leggende metropolitane e sapeva benissimo quello a cui pensavo, che si sarebbe trattato di esterovestizione. Non era il suo obiettivo. Assolutamente lui voleva pagare le tasse in Italia.
Il problema è un altro. Il suo cliente, azienda con casa madre a Londra, semplicemente trova naturale pagare di più una società di consulenza inglese rispetto ad una italiana, a parità di servizio, e ben sapendo che in entrambi i casi il lavoro sarà svolto da italiani.
Spiacevole sentirselo dire ma non nascondiamoci dietro un dito, negli anni 60 lavoravamo bene e costavamo poco. Negli anni 60 però all’estero si sognava la Dolce vita, il modo di vivere italiano. Era la dimensione del sogno (fatto progetto e poi prodotto da PMI straordinarie) a prevalere.
L’Italia era un Paese sì semplice e povero, ma straordinariamente attraente. Questa immagine sopravvive ancora oggi (con politiche di prezzo ben diverse rispetto a quelle di allora) in molti settori: moda, design, meccanica, food ecc. Analisi ben sviluppata da Confindustria nel suo documento “Bello e ben fatto”.
Dovremmo recuperare quello spirito e avere il coraggio di dirci che puntare sul turismo è necessario non solo per sostenere quel settore ma soprattutto per rinnovare quel sogno, l’immagine dell’Italia e per sostenere tutta la nostra produzione. Un tempo non si parlava forse di “Bel Paese”?
È un po’ troppo presto per puntare esclusivamente sui bassi salari. Avremmo molto da dare se solo trovassimo il coraggio politico di raccontarci le cose come stanno e di provare a cambiare.
Dobbiamo pretendere una Pubblica Amministrazione che diventi stimolo all’innovazione, sia aumentando la spesa in informatica, sia innovando le proprie procedure per costringere le imprese ad innovare le proprie. Dobbiamo crescere dimensionalmente, come imprese e come professionisti.
L’Italia è un Paese dalle potenzialità straordinarie che purtroppo da molto tempo si auto inganna con falsi obiettivi. Incentivare la nascita di startup innovative è importante ma servirà a ben poco se non ricreiamo un sistema in cui possano crescere, diventare imprese di medie dimensioni o esser cedute a imprese residenti. La nostra forza è nel territorio, nella filiera. Usando un termine ormai fuori moda, nei distretti, la cui cultura forte è stata un fattore critico di successo ed oggi forse un freno al cambiamento. Ma va riscoperta questa cultura ed aggiornata.
L’Italia è una bella donna, trascurata per troppo tempo, che può tornare ad essere attraente se sarà capace di competere grazie a un sistema di norme e regolamenti chiaro e vantaggioso, se saprà valorizzare la sua storia, le sue tradizioni e, paradossalmente, se saprà aumentare le spese in R&S anche pagando di più i propri ricercatori.
I centri di ricerca delle multinazionali sono ovviamente i benvenuti ma serviranno a poco se non si saprà ricreare quella cinghia di trasmissione capace di diffondere le conoscenze così create all’interno di una filiera di creazione di valore. Rischieremmo in questo caso di ritrovarci vittima degli stessi pregiudizi di cui soffrono gli indiani.
I primi segnali di cambiamento si avvertono già. Qualche azienda di dimensioni medie o grandi si sta già attrezzando per fare scouting di startup funzionali e sinergiche al proprio business. Sono segnali deboli, molto lontani dal colpo di reni necessario, ma vanno incoraggiati.
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