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Perché le startup iniziano a diventare interessanti. Anche in Italia
Da sempre osservo con curiosità e, lo ammetto senza pudori, incredulità il fenomeno startup. La normativa di vantaggio, pur lodevole negli obiettivi e per gli strumenti messi a disposizione delle imprese, si scontra con le inefficienze di un sistema Paese che fa estrema fatica ad attrarre risorse e talenti.
Le stesse startup molto spesso si sono rivelate strutture un po’ ingenue ed effimere all’interno di una bolla gonfiata da consulenti, incubatori e grandi imprese in cerca più che altro di migliorare la propria reputazione sul mercato. Spesso il racconto giornalistico ed economico ha confuso tra freelance e imprese innovative, tra incubatori e coworking.
Differente invece, e ben più considerevole, l’impatto culturale del fenomeno startup. In un Paese come il nostro, in cui l’impresa è stata spesso vittima di ideologie politiche superate e di numerosi preconcetti, parlare di startup ha consentito a molti di avere un alibi per ricredersi e affrontare in maniera propositiva il tema del fare impresa.
Oggi, a differenza di qualche anno fa, osserviamo una serie di fattori che stanno facendo crescere il fenomeno startup verso una nuova maturazione, rendendolo estremamente più interessante:
– le imprese tradizionali sopravvissute alla crisi hanno compreso la necessità e l’urgenza del cambiamento;
– il cambiamento oggi non viene più solo raccontato come web marketing ma come cloud, riorganizzazione interna grazie alle nuove tecnologie, big data, ecc. Cambiamento oggi è ridisegnare profondamente l’impresa e la sua catena del valore;
– la cultura startup può essere, o meglio dovrebbe essere, innestata nelle imprese tradizionali contaminandole. Assistiamo a diversi tentativi in tal senso;
– le nuove tecnologie rendono sempre più indispensabile ed urgente il passaggio generazionale nelle Piccole e medie imprese (Pmi);
– si sta facendo sempre più spazio la convinzione che bisogna abbandonare il mito della startup nata nel garage per abbracciare una via, più italiana se si vuole, che vede nell’innovazione dei processi e delle filiere tradizionali un obiettivo perseguibile;
– la crisi ha indebolito molte imprese rendendole scalabili. Carlo Pelanda, politologo ed economista, in un intervento pubblicato qualche tempo fa, si è soffermato sul fenomeno ancora poco analizzato delle re-startup: «In Italia ci sono migliaia di piccole aziende, tra i 5 ed i 20 milioni di ricavi, dotate di tecnologia e knowhow esclusivi, che stanno soffrendo, e molte sono destinate a chiudere, perché o non riescono a ottenere abbastanza credito o perché la famiglia proprietaria ha problemi nel rinnovare la governance, oppure non sono ben managerializzate. Il Paese è il più grande giacimento al mondo, nelle contingenze, di potenziali re-startup a disposizione dei fondi di investimento».
Oltre a tutto ciò leggiamo sempre più frequentemente case history interessanti come quella del Lanificio Reda che adotta la startup Lanieri per investire in un team e in un progetto sinergico al proprio. Sono segnali, ancora deboli ma estremamente interessanti, di un nuovo modo di intendere il cambiamento, in cui l’innovazione affronta criticamente i fondamentali del fare impresa, innovando i processi e riscrivendo ruoli ed obiettivi.
La narrazione stessa (media, accademia, ecc) sta abbandonando l’entusiasmo per gli effimeri emulatori del modello californiano (nato in un ecosistema profondamente diverso dal nostro) per raccontare quei casi di successo, meno eclatanti ma certamente più solidi, che si basano sul fare meglio ciò che sappiamo fare, sul valorizzare le nostre competenze e i punti di forza del sistema Italia.
Sono segnali che portano finalmente un osservatore come il sottoscritto, attento ma critico del fenomeno startup (fatemi dire spesso a ragione), ad affermare che si sta entrando in una nuova fase potenzialmente estremamente interessante per le imprese che sapranno coglierne le potenzialità e per gli effetti che mi auguro tutto ciò potrà avere sulla ripresa economica del nostro Paese.
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